Onori e fama come produttore di livello internazionale, ma un personale progetto artistico che si concentra sulla composizione e, in questo caso, sulla creazione di una nuova paletta espressiva per lo strumento che padroneggia come pochi altri, la chitarra.
Il post sulla sua pagina Facebook è del 24 giugno: “Dopo sei anni, lascio andare… Da oggi è vostro.“
L’oggetto di cui si parla è il nuovo album Aham, in sanscrito “Io sono”, frutto di un progetto ambizioso e molto impegnativo. Si trattava di una sfida coraggiosa e allo stesso tempo necessaria, il tentativo di creare qualcosa di diverso nel mondo delle sei-corde, di dare una forma a quella che lui descrive come “Chitarra Transmoderna”. Se abbia raggiunto il suo intento o almeno ne abbia posto le basi si vedrà in seguito, ma l’album merita sicuramente attenzione per più di un motivo.
Il primo è quello appena descritto e dovrebbe stimolare perlomeno i chitarristi, nella curiosità di scoprire che cosa può essere ancora inventato o elaborato nel mondo dello strumento. La strada scelta è stata quella di un lungo lavoro certosino sulla base di strumenti reali ed effetti analogici, escludendo all’origine sintetizzatori e campionatori con il solo aiuto di qualche plugin per rifinire i suoni, allo scopo di emulare per quanto possibile il suono di archi, fiati, percussioni con le chitarre. Volendo essere ancora più precisi, si tratta della creazione di sonorità originali adatte a sostituire con sufficiente efficacia un violino, un’oboe, un rullante, etc. con un amore evidente per la voce pastosa del sax.
I risultati sono notevoli, in vari casi stupefacenti.
Il secondo motivo per ascoltare Aham è legato alla qualità della musica in sé. Dalla presentazione: “Alla fine non è così importante la modalità con la quale si costruisce un’opera musicale, ma soltanto se, e in che modo, un musicista riesce a creare quello spazio emotivo e – da sempre – virtuale nel quale, sia l’artista che l’ascoltatore, trovano il modo per condividere le gioie, i dolori e la ragione stessa di questo nostro “Esistere”.“
Lo dice lui stesso: è un lavoro mostruoso di studio ed elaborazione dei suoni, ma non serve a niente se la musica è vuota di significato, se non ha la capacità di comunicare qualcosa all’ascoltatore. E questo riguarda tutti, non solo i chitarristi.
In un album così intrigante, la difficoltà è quella di non farsi prendere troppo dal gusto di assaporare i suoni originali, di non togliere attenzione alla musica, premettendo che merita qualcosa di più delle micro-casse di un laptop per l’ascolto: il fine lavoro fatto sui suoni e le tessiture create attraverso attenta orchestrazione di brani a volte anche piuttosto complessi necessitano di una riproduzione di qualità adeguata.
Il mood generale delle composizioni è piuttosto rilassato, con un suggestivo e cinematico procedere interrotto solo in pochi punti da citazioni musicali ad effetto come quella zappiana della opening track “As Dark Bleeds Light” dove risalta lo strumento solista con voce simile a un fiato etnico. Si viaggia su ritmiche moderate e atmosfere dense di colori come quelli di “Ananda’s First Steps” che ricorda certi momenti di Sakamoto, o “The Duke and the Hare”, mentre “Roots of Progression” è un’eccezione dichiarata, un tributo alla complessità e al passato Prog di Rustici che si distacca dal resto dell’album per la dinamica accentuata e l’intricatezza di armonizzazioni e fraseggi.
Dei due momenti cantati, “The Guilty Thread” è caratterizzato profondamente dalla notevole performance vocale di Rustici, che qui esce alla ribalta con una voce passionale, sporca, sofferta su un testo intriso di mistico amore e sofferenza. In “Alcove of Stars”, invece, il microfono passa a Andrew Strong, ex-ragazzo prodigio nel film The Commitments, che lavora di fino sugli arpeggi delicati dell’acustica.
È ambigua e inquietante l’atmosfera descritta efficacemente da “The Last Light Spoken”, ma è negli ultimi due brani che si presenta uno dei fattori che colpiscono di più nell’album, l’evocazione di una voce umanoide verosimile ed estremamente affascinante. Già presente con discrezione nella densa “The Enquiry”, in “Aham” questa si esprime ai massimi livelli sulle note di una composizione degna del più tipico barocco napoletano in cui il canto entra nel registro del soprano, andando a scomodare sopranisti o castrati dell’epoca con un livello di espressività impressionante ed emozionante. Non basta l’assolo tirato e “ignorante” di chitarra elettrica a distogliere l’attenzione da questa voce surreale, umana e aliena allo stesso tempo, che penetra profondamente lasciando il segno nel cuore dell’ascoltatore.
Nell’intero album la chitarra di Corrado è quasi interamente al servizio dell’esposizione musicale: si lascia andare raramente al gusto dell’improvvisazione, del fraseggio muscolare, ma quando lo fa non ce n’è per nessuno: a livello di tecnica strumentale il musicista napoletano viaggia da sempre a livelli invidiabili, ma c’è qualcosa che lo tiene da sempre lontano dal mondo degli shredder, la necessità di produrre musica dotata di un senso, di una sua verità, a prescindere dal numero di note e dalla velocità.
In conclusione, un album fuori dal comune e un’impresa unica nel suo genere, difficile da inquadrare in una categoria ma ricco di ogni tipo di spunti e riferimenti.
Non perdete l’occasione di ascoltarlo. Presto su Musicoff la nostra intervista.
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