Una serie di conversazioni tra Ennio Morricone e Alessandro De Rosa, giovane compositore italiano, hanno dato alla luce questo libro meraviglioso che vi sto brevemente raccontando.
Una delle prime sensazioni che ho provato, sfogliandolo ed iniziando a leggere le sue pagine, è stata quella di pensare alla quantità enorme di musica che è stata scritta e suonata, ma che nelle pagine del libro non possiamo sentire.
Tuttavia, in modo del tutto immediato, quando viene citata, viene richiamata alla nostra memoria, dandoci la sensazione di sentirla, come se avessimo dentro di noi, memorizzate da qualche parte, le innumerevoli colonne sonore composte da Morricone.
Ispirazione eterna
È inevitabile pensare ad un grande maestro, come ad una fonte inesauribile, ma come siamo abituati a vedere nella vita, anch’essa è destinata ad esaurirsi. Ogni cosa sulla terra ha un ciclo vitale, abbiamo imparato ad osservare il microcosmo ed il macrocosmo, ed anche ciò che sembrava immutabile ed eterno, abbiamo scoperto, in verità, avere una fine. Anche le stelle prima o poi cadono.
La stella di Morricone pensiamo invece sia eterna, perché, pensiamo che eterna sia la musica. La identifichiamo come tale, non osiamo nemmeno immaginare che possa terminare. Ma d’improvviso, o annunciata da una lieta vecchiaia, la vita finisce.
Certo siamo convinti, con buona ragione, che la sua musica, ogni volta che l’ascoltiamo, ci riporti l’anima del maestro, il suo spirito. Eppure lui non c’è e dobbiamo prenderne atto. Ed è prendendone atto che gli rendiamo il giusto omaggio, che lo rendiamo “eterno”.
Anche questa?
Mentre iniziavo a leggere le pagine del libro, con la faccia sempre più sorpresa, la bocca spalancata e gli occhi sgranati, immediatamente correvo ad afferrare il mio smartphone per cercare qualche scena dei film citati che avevo visto in passato e, mentre cercavo le scene di questi film, continuavo a dirmi: «anche questa musica l’ha composta lui?».
Non ci potevo credere, sfogliavo elenchi infiniti e aneddoti interminabili che riguardavano il maestro, i registi, e le musiche composte. Non riuscivo ad immaginare che anche quella colonna sonora di quel film fosse stata composta da Morricone.
Una serie innumerevole di brani che avrò sentito centinaia di volte, sono usciti dalle sue sapienti mani.
In questi capitoli dedicati al lavoro di composizione nel cinema, è stato bello leggere come i processi creativi fossero differenti e differenziati per ogni regista.
A volte arrivava la scena del film già montata; altre volte veniva sottoposto il copione del film, il soggetto e da quello veniva tratta ispirazione per comporre; altre volte da semplici immagini. Altre ancora, ma più rare, le scene erano adattate alla musica, per far aderire maggiormente l’azione all’ascolto.
Pagine stupende, dal valore inestimabile.
Come una scacchiera
Continuando a leggere, ho imparato a conoscere un po’ la persona, l’uomo dietro quelle immagini, l’uomo che si è svelato lentamente attraverso la sua musica. Non è sicuramente un testo autobiografico, eppure alcune sue affermazioni, presenti nel testo, mi hanno dato il modo di immaginare la sua personalità.
La prima di queste immagini è sicuramente una scacchiera. Morricone era un grande appassionato di scacchi ed anche un buon giocatore, tanto che lui stesso afferma che avrebbe voluto intraprendere la carriera di giocatore di scacchi professionista.
Una scacchiera, in fondo è una bella metafora della vita. Il gioco degli scacchi è sicuramente una metafora intrigante ed interessante della vita dell’uomo ma, forse, anche della musica. Come la musica, che si muove con delle regole precise, anche gli scacchi hanno delle regole ben precise, tuttavia queste regole non impediscono di mescolare una serie di mosse diverse, di combinarle tra di loro in modo da non replicare mai lo stesso movimento. Proprio come una partita di scacchi, così è la musica.
Ma per quanto possano essere indeterminate ed indeterminabili le combinazioni di mosse che possiamo fare in una partita o nella serie innumerevole di partite che l’uomo ha giocato a scacchi, prima o poi queste combinazioni si esauriranno, poiché sono 64 le caselle, sono 32 i pezzi, sono un numero finito di oggetti che danno un numero finito di combinazioni ed anche facendo dei calcoli lunghissimi, la cui cifra non riesco nemmeno ad immaginare, arriveremo primo poi ad un numero finito di combinazioni.
Eppure qualcosa è sempre nuovo, qualcosa non è ancora stato scritto. Attraverso questa metafora scorgo il senso, forse, del titolo. Il senso dell’inseguire quel suono, tanto inafferrabile quanto indescrivibile.
Che cos’è un suono? Una vibrazione? La percezione della vibrazione di un corpo? E perché proprio “quel” suono? Di quale suono sta parlando?
Forse come in una partita a scacchi, Morricone cercava la mossa perfetta la combinazione di mosse perfette e, vivendo con questa attenzione, non ha mai smesso di ricercare. Questo è il primo insegnamento preso da questo testo, delle conversazioni: la ricerca continua, il non avere mai un fine ma tendere sempre a qualcosa di più grande di più lontano e inafferrabile e, proprio perché inafferrabile, continuare ad alimentare il desiderio di afferrarlo.
Praotes (mitezza)
La seconda riflessione che vorrei condividere, nata sempre dalla lettura del testo, arriva in un punto molto preciso, quando Morricone dice di non credere nei trionfi. Io sono un grande appassionato della saga di Star Wars. E se penso a John Williams il grande compositore statunitense, che ha composto la colonna sonora di Star Wars, penso al momento in cui entra il grande cattivo, Darth Vader ed alla marcia imperiale.
Oppure, meglio ancora, al momento in cui viene fatta esplodere la morte nera, in episodio IV, ed all’esplosione delle note, che danno la sensazione di trionfo.
Ora, ogni volta che rivedrò il film non potrò far altro che pensare alle parole di Morricone, immaginare tutte le sue colonne sonore, tutti i film nei quali lui ha composto la musica musica e sovrapporli alla frase che lui ha enunciato: “non credo nei trionfi”.
Dovrei fare una ricerca lunghissima, per vedere se ha mantenuto fede a questa sua frase. Immagino proprio di sì. Ho immaginato anche la sua vita legata a questa espressione. La prima cosa a cui ho pensato è stata Aristotele. Perdonatemi la breve divagazione di storia della filosofia.
Nell’etica Nicomachea Aristotele ricerca le virtù e le pone in una condizione di mezzo tra i vizi. Ogni vizio, ha il suo opposto e la virtù trova la sua dimora nello stare nel mezzo e nell’equilibrare i due estremi.
Vi è, tuttavia, una virtù che è anomala rispetto alle altre, poiché, pur mantenendo la caratteristica che contraddistingue tutte le altre virtù, cioè quella di stare nel mezzo, difetta di un particolare, cioè di non avere uno dei due estremi per potersi collocare come medio.
Sto parlando della “mitezza”. Se la contrapponiamo all’ira, essa è già lo stare in una condizione di non ira, di tranquillità.
Essa si pone come mancanza come privazione di qualcosa, come una condizione alla quale viene sottratto qualcosa e, se nelle altre virtù, il carattere era di stare nel mezzo, non per forza di una sottrazione, poichè si aggiungeva un carattere distintivo alla virtù, la mitezza (praotes), al contrario, sembra avere il suo carattere distintivo in una sottrazione, nel venir meno di una caratteristica di un vizio.
Sembrerebbe, a tutti gli effetti che la mitezza si ottenga per sottrazione di qualcosa, per passività, per non azione.
Eppure non è così. Il negarsi alla lotta, il togliersi dal conflitto, non significa non scendere nel campo dialettico della vita, ma accettare l’altro nella sua totalità, farlo essere ciò che è.
La mitezza non è remissività, ma quanto più rinuncia ad una gara distruttiva della vita.
Ripensando ad Aristotele mi sono domandato quanto lavoro ci sia voluto per poter bilanciare, in tutta la carriera di Morricone degli estremi: note, suoni, il carattere dei musicisti, dei registi, le scene degli attori, le inquadrature di un film, la fotografia e quanto altro ancora non riesco a pensare.
Mi sono chiesto se, in fondo Morricone non si sia sottratto alla lotta, ma abbia trovato un equilibrio, del quale porsi in modo attivo e non passivo, nel quale far scorrere gli eventi, nel quale cogliere le fluttuazioni della vita che andavano da un estremo all’altro cogliere il momento opportuno attraverso la virtù della mitezza.
Ecco perché le sue musiche hanno fatto breccia attraverso generazioni, perché si sono nutrite di queste due caratteristiche che sto provando descrivere, la prima è una tensione costante verso “quel suono”, verso un’idea o ideale; la seconda il carattere della mitezza che ci insegna ad essere senza sopraffare che ci insegna a vivere senza schiacciare.
Per questi insegnamenti grazie ancora una volta Maestro.
Buona lettura!
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