La chitarra acustica di Stefano Barbati in Volonotturno si alterna tra brani originali e arrangiamenti di classici.
Chitarrista, anzi musicista, completo ed eclettico, il lancianese Stefano Barbati da anni svolge un’intensa attività concertistica e didattica. A distanza di diversi anni dal suo ultimo lavoro in studio Il salice, il grano, la rosa del 2013 – anche se nel frattempo è stato molto attivo sulla scena cantautorale – l’uscita del suo Volonotturno è l’occasione giusta per scambiare quattro chiacchiere e fare un po’ il punto della situazione.
Sono passati cinque anni dal tuo ultimo disco come solista, anche se hai lavorato sulle produzioni di Federico Sirianni nel frattempo. Possiamo dire che Volonotturno è un lavoro molto pensato e fortemente voluto?
Prima di imbarcarmi in questo quinto lavoro discografico mi sono posto la domanda: «Vale la pena nel 2018 pubblicare un CD, visto che quest’ultimo sta diventando un oggetto in disuso?» La risposta risiede nell’intima esigenza di fermare in qualche modo, come in una fotografia, il flusso delle idee, delle emozioni che fanno parte di un presente o di un passato abbastanza prossimo.
È un lavoro economicamente ‘a perdere’, visto che la musica oggi la si trova gratis e dappertutto. Ma è un lavoro necessario per definire un’intenzione artistica che altrimenti andrebbe persa, o dimenticata nei meandri di un hard disk o dispersa nel mare di Internet sotto forma di ‘singoli’ MP3.
Quindi certamente possiamo dire, come di ogni produzione discografica, che Volonotturno è stato fortemente voluto. Grazie anche all’entusiasmo di Reno Brandoni, che dopo tanti anni continua a supportare con il marchio Fingerpicking.net le nostre produzioni di ‘nicchia’.
Ovviamente, come accenni nella tua domanda, in questo periodo non sono stato fermo: infatti da qualche anno ho avviato una prolifica collaborazione con alcuni nomi della musica d’autore italiana, come appunto Federico Sirianni, il quale mi ha coinvolto – oltre che in numerosi concerti – nella realizzazione di ben due brani del suo ultimo disco, non solo come chitarrista ma anche come arrangiatore, e per me è stata una grossa soddisfazione.
Tramite Federico ho avuto modo di conoscere e collaborare anche con altri nomi legati alla musica d’autore, come il genovese Max Manfredi e la molisana Liana Marino. Queste collaborazioni sono sempre artisticamente molto stimolanti e in Volonotturno c’è tanto di queste esperienze.
Infatti tutte le undici tracce hanno un approccio molto legato alla canzone, anche se sono solo tre i brani cantati, sia nella costruzione, sia nell’intenzione di comunicare delle emozioni cercando di portare l’ascoltatore verso altri ‘luoghi’, piuttosto che soffermarmi solo sull’approccio tecnico-virtuosistico.
La scaletta del disco è molto varia: due “Notturni” di Chopin, quattro inediti, un omaggio all’amico Sirianni, uno a Pino Daniele, e appunto la “Habanera” di Bizet; come hai deciso quali brani inserire?
Sì, effettivamente il disco abbraccia un po’ tutte le mie passioni musicali e non solo… “Huarachas” nasce dal romanzo Chiedi alla polvere dello scrittore italo-americano John Fante, dal sapore dichiaratamente sudamericano. “Noodles” parla del leggendario personaggio interpretato da Robert De Niro in C’era una volta in America, e per l’occasione mi sono ispirato palesemente alle atmosfere morriconiane.
“Halab” è nata come come soundtrack per un reading in cui si parlava dei bambini in Siria, quindi ho usato il bouzouki per rendere il tutto ‘orientaleggiante’ ma non troppo. Ma lo spunto per mettere insieme tutto questo sono stati i “Notturni” di Chopin registrati in completa solitudine: mi sono trovato quasi per caso a ‘giocare’ con il famoso “Notturno” op. 9 n. 2 e a cercarne gli ‘accordi’ o, detto in maniera professionale, ad analizzarlo armonicamente scoprendo così dei passaggi molto moderni e quasi pop; perciò l’arrangiamento è venuto da sé…
I puristi storceranno il naso, ma a mio padre – che ha sempre l’orecchio critico – è piaciuto molto, quindi per me è buono! Sono partito da questo arrangiamento e ho incastrato gli altri brani – composti o arrangiati nell’arco di questi cinque anni – cercando un’atmosfera ‘notturna’.
“Notte che se ne va” è stata arricchita dall’intensa performance vocale di Liana Marino: è il nostro tributo a Pino Daniele; dico ‘nostro’ perché sia io che Liana –che è una bravissima chitarrista oltre che sensibile cantautrice – abbiamo deciso di intraprendere le rispettive strade musicali e chitarristiche, in tempi e in luoghi diversi, grazie alla musica del cantautore napoletano; quindi l’omaggio era doveroso…
“L’amore in fondo” è un brano meraviglioso composto da Federico Sirianni, ed è uno dei due che lui mi ha chiesto di arrangiare per il suo disco Il santo del 2016: il nostro patto è stato che delle due versioni realizzate nei provini una sarebbe finita sul suo disco e una su un mio allora ipotetico lavoro… e così è stato.
La “Habanera” di Bizet è probabilmente l’esperimento più ardito di queste undici tracce: combinare in qualche modo una chitarra acustica con approccio folk-blues alla lirica.
Ero in studio con la mia allieva Caterina Calabrese, e con lei c’era la sorella Claudia Nicole che – al contrario di Caterina, ottima cantante e chitarrista pop-soul – studia e pratica la lirica ed è già parecchio apprezzata nel suo ambito. Le ho chiesto di registrare qualcosa ‘al volo’ e lei mi ha cantato questa famosissima aria della Carmen di Bizet, che ho tenuto un po’ sul Mac fin quando non ho deciso di metterci mano e creare un arrangiamento di chitarra acustica abbastanza moderno, con tapping e percussioni.
Nonostante questo richiamava in qualche misura un mood da bassifondi urbani (del resto il personaggio Carmen era un’affascinante donna del popolo…) andando un po’ contro quelle che sono le regole e le esecuzioni ‘classiche’. Il provino l’ho sottoposto al ‘producer’ Reno Brandoni, che ne è rimasto entusiasta; così, con sapienti interventi percussivi, slide ed effetti, abbiamo creato questa versione ‘alternativa’.
Che strumentazione hai usato in studio?
Ho usato prevalentemente la mia Lakewood M-32 Custom Shop e la Gibson Keb’ Mo’ Bluesmaster – sono due strumenti magnifici, con i quali mi trovo a mio agio sia in studio che in concerto –, in alcuni casi ‘bagnate’ con il bellissimo riverbero Strymon BlueSky.
Ci sono anche interventi della Gretsch Electromatic per alcuni colori ‘elettrici’, della Godin ACS Nylon e del bouzouki Musikalia.
L’intervista completa di Mario Giovannini è pubblicata su Chitarra Acustica n.7/2018.
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