“Hai carta bianca“: quale musicista non vorrebbe sentirsi dire questa frase dalla propria etichetta discografica? Un budget elevato (o magari infinito) non è automaticamente garanzia di un buon risultato, tuttavia la possibilità di permettersi uno studio ben equipaggiato, o semplicemente blasonato, un tecnico del suono di grande esperienza o l’affitto di una strumentazione di alto livello farebbe gola a chiunque.
Non tutte le ciambelle riescono col buco, però. Così come sono stati sfornati dei costosissimi capolavori, ci sono album passati alla storia per lo scarso rapporto tra investimenti profusi e riscontro commerciale. Vediamo insieme alcuni esempi più o meno celebri dei risultati di un grande budget sul prodotto finale.
In una simile lista non può mancare Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, pietra miliare dei Beatles. Impossibilitati a rendere adeguatamente la loro musica dal vivo, o forse provati dalle estenuanti tournèe mondiali, i Fab Four interruppero tutte le attività live nel ’66 per dedicarsi esclusivamente alla composizione, decisi a sfruttare al 100% possibilità offerte dagli Abbey Road Studios di Londra.
I ragazzi di Liverpool, insieme al leggendario produttore George Martin e al sound engineer Geoff Emerick, impiegarono quasi 700 ore di registrazione e un budget intorno alle 25.000 sterline (cifra decisamente notevole per gli standard dell’epoca, pari a £427,507 nel 2017) per dare vita al capolavoro che tutti conosciamo.
C’è proprio la volontà di creare qualcosa di accostabile al masterpiece dei Fab Four alla base di A Night at the Opera dei Queen. Reduci da lavori di successo nei quali tuttavia non avevano avuto la possibilità di esprimere la propria creatività in totale libertà, Freddie Mercury e compagni impiegarono un budget di oltre 40.000 sterline (£316,127 nel 2017) e una meticolosità ai limiti della follia, come testimoniano le 180 voci sovraincise per i cori di Bohemian Rapsody, un lavoro di oltre una settimana da 12 ore al giorno. Per raggiungere l’obiettivo la band in 6 studi di registrazione differenti, utilizzandone anche 3 allo stesso tempo.
Un investimento enorme sotto tutti i punti di vista, ma ampiamente ripagato dai risultati.
Ai Queen e al loro capolavoro strizzano l’orecchio i The Darkness, gruppo inglese letteralmente esploso nel 2003 con l’album di debutto Permission to land. L’improvviso successo commerciale, con milioni di dischi venduti e un’intensa attività di tour a livello mondiale, creò le premesse per un lavoro ambizioso come One Way Ticket to Hell… and Back.
L’intento della band era quello di dar vita a un album del livello di A Night at the Opera: inizialmente fu inciso materiale per 37 canzoni, dopodichè venne ingaggiato Roy Thomas Baker (noto per aver lavorato tra gli altri proprio con i Queen) per elaborare l’enorme mole di tracce in soli 10 pezzi; tutto ciò sullo sfondo di una situazione di tensione interna alla band, con la controversa uscita dalla formazione del bassista Frankie Poullain proprio durante le fasi di registrazione.
L’album, i cui costi di produzione si aggirerebbero intorno al milione di sterline, non ripetè lo strepitoso successo del precedente, e il successivo (anche se temporaneo) abbandono della scena musicale del frontman Justin Hawkins per disintossicarsi dalla dipendenza da cocaina portò la band a un lungo periodo di interruzione delle attività.
Citato da numerosi fonti come l’album più costoso della storia (si parla complessivamente di 13 milioni di dollari), Chinese Democracy dei Guns ‘N Roses deve certamente questo primato alla sua lunghissima gestazione. Si iniziò a parlare di un nuovo album di inediti già nel 1994, quando Axl Rose rimase di fatto l’unico membro della band in seguito all’abbandono di Slash e del bassista Duff McKagan, e al licenziamento del batterista Matt Sorum.
L’album uscì però soltanto nel 2008, dopo ben 14 anni di lavoro durante i quali la Geffen Records investì un patrimonio in affitto di locali e attrezzature, stipendi della lunga lista di strumentisti ingaggiati e dei tecnici, non tralasciando alcune costose bizzarrie come il pollaio (!!!) allestito in studio per volontà del chitarrista Buckethead.
In fatto di lunghe attese ha però ben pochi rivali il progetto dei Beach Boys noto come SMiLE. Nell’immaginario di Brian Wilson questa “sinfonia adolescenziale rivolta a Dio” avrebbe dovuto rappresentare un salto di qualità immediatamente successivo al già eccelso Pet Sounds, capolavoro della band californiana rilasciato nel ’66; tuttavia le complesse condizioni psico-fisiche di Wilson, ormai dipendente dalle droghe e afflitto da periodi di profonda depressione, impedirono al progetto di concretizzarsi nell’immediatezza nella forma voluta.
L’artista riprese in mano il materiale nel 2003, pubblicandolo l’anno successivo in una forma rinnovata, mentre le registrazioni originali furono pubblicate nel 2011. Senza dubbio il fatto di aver visto la luce a distanza di quarant’anni contribuisce all’elevato tasso di dispendiosità delle registrazioni, complici anche le complesse tecniche di registrazione adottate, ma eccessi come l’allestimento di una tenda araba da 30.000 dollari nella quale Wilson era solito consumare pasti e stupefacenti hanno sicuramente incrementato il già corposo budget investito.
Insomma, gli aneddoti non mancano e la lista potrebbe proseguire. Ma crediamo che il concetto sia già efficacemente espresso: un budget illimitato non vi porterà automaticamente un grande album, ma se avete talento e passione vi aiuterà sicuramente a raggiungere risultati soddisfacenti, e chissà che il prossimo capolavoro non sia il vostro.
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