Sotto la direzione di Antonin Artaud, il Thèâtre des Folies-Wagram riuscì raramente a riempire le sue sale nonostante l’intrattenimento affatto banale: debuttava sulla scena “I Cenci”, opera che metteva in pratica i precetti illustrati nei manifesti del “Teatro della Crudeltà” usciti tra il 1932 e il 1933 firmati dallo stesso Artaud.
Diverso è il destino del Teatro degli Orrori di Capovilla, Favero, Mirai e Valente, che pur ispirandosi al geniale drammaturgo francese, fin dal debutto (“Dell’impero delle tenebre”, 2007), ma sopratutto con “A sangue freddo” si sono guadagnati una folla di adepti che riesce a riempire senza troppi problemi i loro concerti.
La crudeltà di Artaud consisteva in un teatro di attualità che doveva suggestionare con tutti i mezzi disponibili a quest’arte (“Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare.”); anche “l’orrore” del gruppo nostrano nasce dalle miserie dei nostri giorni e cerca di colpire con un atteggiamento lirico teatrale e una musica appropriata (che dal puro Noise del debutto ha teso, dicendola a modo loro, a un certo “imborghesimento”). L’importanza e le responsabilità de “Il mondo nuovo” vanno però al di là della semplice conferma, questa è infatti la prima vera e propria “pièce” teatrale che mettono in scena: l’immigrazione raccontata in 16 atti. Un dramma difficile da rappresentare con la giusta enfasi, soprattutto se l’obiettivo è quello di far riflettere lo spettatore. Proprio per creare quest’enfasi il Teatro utilizza degli ingredienti tipici dei suoi album: le pulsioni freudiane di Eros e Thanatos, amore e morte, che, probabilmente proprio per l’universalità che gli attribuiva lo psicoanalista austriaco, coinvolgono facilmente l’ascoltatore nei ritornelli creando sempre un certo phatos.
Anche se trattando questi temi con assiduità, pur diluendoli con vari gradi di disperazione, è facile svuotarli della profondità: questo accade a “Rivendico”, “Io cerco te” e “Non vedo l’ora”, i primi tre brani dell’album, che condividono il tema amoroso e hanno imperfezioni più gravi del “Roma Capitale, sei ripugnante, non ti sopporto più” del singolo verso cui molti hanno storto il naso. Piuttosto il loro peccato è l’essere abbastanza scontate e prevedibili sul piano del contenuto (alcune più, alcune meno) e, pur riconoscendogli un impianto melodico ammaliante e immediatamente coinvolgente, in alcuni casi anche dal punto di vista musicale. Ben più piacevole è la tensione raggiunta nelle lettere tra amanti lontani in “Skopje”, la quarta traccia. I tre brani successivi staccano dalla figura del migrante per raccontarci prima, attraverso la sperimentazione e i suoni quasi tribali de “Gli stati uniti d’Africa”, di chi è straniero nella sua terra come Henry Okah leader del Movimento per l’emancipazione della sua patria, il Niger. Si passa poi ad un ritratto molto suggestivo della desolazione e la morte che incontra chi ha lasciato il suo paese per la guerra (“Cleveland-Baghdad”), e infine alle tinte più movimentate ma comunque fosche della storia “Martino”, coinvolgente ma meno brillante rispetto la precedente. Con “Cuore d’oceano” ci ritroviamo nei panni di un migrante, che, costretto a tuffarsi per raggiungere la terra promessa, non riesce ad arrivare a riva. L’influenza di Caparezza e gli Aucan è ben ascoltabile: la canzone è particolare, non molto innovativa, ma suggestiva. Le atmosfere acustiche di “Ion” sono toccanti quanto la tragedia da cui trae ispirazione: l’omicidio di Ion Cazacu, bruciato vivo dal suo datore di lavoro dopo aver chiesto, semplicemente, di essere messo in regola. “Monica” insiste a colpirci nel nostro lato più sentimentale portandoci nei panni di un carcerato, tra l’amore disperato per la sua compagna e l’orrore per il suicidio sotto i suoi occhi del suo compagno di cella. “Pablo” è una piccola perla malinconica che però tende a perdersi nel finale un po’ prolisso; segue la disperata “Nicolaj”, con i suoi ritmi lenti da cui è difficile non essere trasportati.
Le atmosfere ricercate di “Dimmi addio” sarebbero già un buon finale, ma il teatro ha in serbo ancora tre atti: il terzultimo, “Doris” (rivisitazione di un brano degli Shellac), è piuttosto macchinoso, vario, e condivide con “Martino” il carattere popolare, solo a tratti realmente poetico. Nel penultimo Capovilla può finalmente liberare la sua vistosa personalità teatrale con “Adrian” e il suo violento finale Noise sui versi di “Mauvais sang” di Arthur Rimbaud.
Infine “Vivere e morire a Treviso” affida i titoli di coda al nostro subconscio: è il circolo delle illusioni che scandisce i nostri giorni e ci fa andare avanti. Dal punto di vista strumentale, oltre Caparezza e gli Aucan (unici dei tanti ospiti realmente incisivi), il lavoro di Valente alla batteria e Favero al basso è solamente a tratti brillante, mentre la chitarra di Mirai mostra un repertorio ricco che comprende anche numerosi inserti acustici maturati nell’esperienza solista delle “Allusioni”. Infine Capovilla ha un ruolo centrale vista la vena autoriale del lavoro e si ritrova a portare in scena molti personaggi e più raramente se stesso e la sua grande personalità.
La narrazione tende così ad essere meno atipica, come anche la musica, del resto, si abbandona su melodie meno ricercate, mostrando, dal punto di vista della forma, una certa semplificazione al fine (come ammesso dallo stesso gruppo) di ampliare l’utenza. Non si può parlare comunque di un album “usa e getta”, ha bisogno anzi di diversi ascolti per essere apprezzato pienamente (soprattutto da voi che li ascoltate dai tempi di “E lei venne!”). Il tema scelto conferma la volontà di esprimersi come gruppo impegnato, che, nonostante spesso incappi in dei luoghi comuni, quando si impegna ci regala delle immagini importanti che riescono a trasmettere emozioni forti: l’album è intriso di una nostalgia, verso casa, verso le persone che si amano, ma anche verso sé stessi, che colpisce nel profondo. Purtroppo l’ascoltatore non si troverà trasportato dalle forti sensazioni che si auspicava Artaud per il teatro descritto nel suo manifesto e più di qualcuno si sentirà quasi come un migrante le cui tante speranze per “Il mondo nuovo” si infrangono davanti alla realtà.
È comunque ingiusto non dare una possibilità ad un album nel complesso molto piacevole, che conferma la capacità del Teatro degli Orrori di emozionare e intrattenere facendo riflettere: non una cosa da poco per i nostri tempi.
Genere: Alternative Rock Line – Up: Pierpaolo Capovilla – voce Gionata Mirai – chitarra Giulio Favero – basso, chitarra, tastiere Francesco Valente – batteria Ospiti: Rodrigo D’Erasmo – archi Caparezza – voce e testo in “Cuore d’oceano” Andrea Appino (Zen Circus) – chitarra in “Io cerco te” Aucan – synth in “Cuore d’oceano” Davide Toffolo Egle Sommacal (Massimo Volume) – chitarra in “Doris” Mirco Mencacci – sonorizzazione in “Adrian” Annapaola Martin – voce in “Io cerco te” Mara Haregu Pagani – voce in “Gli Stati Uniti d’Africa” Marco Catone – collabora nella stesura del testo di “Adrian” Fabio Rondanini – batteria in “Pablo” Richard Tiso – basso in “Nicolaj” Carlo Garofalo – percussioni in “Nicolaj” Stefano Pilia – chitarra in “Pablo” Alfonso Santimone – synth in “Vivere e Morire a Treviso” Tracklist:
Francesco “Forsaken_In_A_Dream” Cicero
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