Seventh Son of a Seventh Son rappresenta senza dubbio una tappa molto particolare nella carriera discografica degli Iron Maiden.Da molti considerato il miglior album della band inglese, questo disco riprende in qualche modo, ampliandola, evoluzione stilistica e creativa che già aveva fatto irruzione nel precedente Somewhere in Time.I sintetizzatori di basso e chitarra sono sempre presenti, ma riescono ad integrarsi alla perfezione nelle atmosfere cineree e a tratti claustrofobiche che permeano tutta l’opera.Il mito di ispirazione infatti (un tema che sicuramente Steve Harris non poteva lasciarsi sfuggire) narra di una profezia, secondo la quale il settimo figlio di un altro settimo figlio sarebbe stato in qualche modo legato al mondo del paranormale, acquisendo alla nascita poteri occulti da decidere poi verso quale fine indirizzare. A tale scopo vi sarebbe stata successivamente una lotta fra le forze del bene e quelle del male per impadronirsi di tali poteri. Come si può vedere fin da subito, le premesse per una composizione in puro stile Iron Maiden ci sono tutte, e l’idea di fondo è stata sfruttata a dovere con la creazione di un “concept album” dalle tinte cupe, il primo nella storia della band.Le canzoni hanno infatti, da “Seventh Son of a Seventh Son” fino a “Only The Good Die Young” (quindi per tutta la seconda metà dell’opera), lo sfondo comune del mito di cui sopra, narrando la storia di questo giovane illuminato, dalla sua nascita fino alla prematura morte.La prima parte del disco invece tratta di temi diversi ma pur sempre legati al filo principale. Moonchild, ad esempio, è un pezzo che parla di un rito magico, riflettendo tale ispirazione nell’uso abbondante dei sintetizzatori a discapito delle due chitarre. Il tocco maideniano si sente invece pesantemente nella successiva Infinite Dreams, che riprende la tematica della immortale “Hallowed Be Thy Name”, approfondendola e proponendo nuove prospettive di risoluzione; il ritmo qui è più incalzante, Smith e Murray danno libero sfogo alla loro creatività con i riff che ormai li contraddistinguono. Can I Play With Madness non ha sicuramente bisogno di presentazioni, essendo ormai divenuta uno dei pezzi più famosi del gruppo. Qualche parola merita invece la sensazionale The Evil That Men Do, una delle preferite dai fan nonché pezzo “da palco” per antonomasia. L’ispirazione è tratta dal “Giulio Cesare” di Shakespeare; il testo tuttavia è di difficile comprensione. La linea melodica è travolgente, la ritmica incalzante ricorda molto quella di “The Trooper”, le armonizzazioni a due chitarre sono come al solito impeccabili e integrate alla perfezione, l’assolo dà a tutta la canzone un’eccellente dinamica; sicuramente uno dei pezzi meglio riusciti di tutto l’album. Le restanti canzoni, infine, sono quelle che presentano la chiave di lettura per comprendere al meglio l’opera.Le melodie ricordano in un certo senso delle atmosfere propriamente egiziane, in un’alternanza di pulito e distorto che danno agli ultimi minuti una sensazione di inevitabilità, fino all’esplosione finale di Only The Good Die Young che segna la morte del giovane profeta, nonchè la fine del nostro viaggio nella sua avventura. Seventh Son of a Seventh Son è in un certo senso l’album che segna la fine degli anni d’oro per gli Iron Maiden, rappresentando l’apice della loro forma tecnica e compositiva fino a X-Factor che tuttavia si presenterà 6 anni dopo.E’ infatti l’ultimo disco ad essere stato scritto dai “magnifici 5” Harris, Smith, Murray, Dickinson e McBrain.La mancanza di Adrian Smith si farà pesante negli anni a venire, accentuando, insieme ad un declino delle prestazioni vocali di Dickinson, la discesa verso i peggiori anni della storia del gruppo.A maggior ragione quest’album è assurto col tempo a “tappa fondamentale” per tutti i fan dei Maiden e, per tutti i neofiti che fossero interessati alla loro musica, questo è sicuramente il primo acquisto da prendere in considerazione.
Casa discografica: EMI
Anno: 1988
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