6 Luglio 1995. E’ d’obbligo rendere onore a ciò che è immortalato in Live At L’Olympia, terza uscita postuma del mai troppo compianto Jeff Buckley e nessuno spazio verrà lasciato al discutere sul “perché” e “per come” dell’ultima produzione, autorizzata dalla madre Mary Guilbert e dal chitarrista Michael Tighe. Ciò che conta è che Live At L’Olympia è una testimonianza di quanta arte e quanta vita fosse in lui e la speranza è che tutti, prima o poi, possano scoprirlo.Ancora in vita, il cantautore americano incantò il pubblico con un’unica opera, Grace, di cristallina purezza e infinita magia. In Live At L’Olympia Jeff personifica le vibrazioni vitree dell’album d’esordio mostrandoci il fragile equilibrio del suo stato di grazia e regalando al pubblico una performance splendidamente imperfetta, sporca, ed infinitamente coinvolgente, che disarma persino lo stesso protagonista, che più volte non riesce a mascherare l’emozione.Il disco si apre con una magistrale versione di Lover You Should Have Come Over, brano in cui “cielo” e “terra” s’incontrano in pace, senza collidere, regalandoci un prezioso atto d’amore. “My kingdom for a kiss upon her shoulder” recita il testo, passionale trasposizione di un noto verso shakespeariano. Poesia e vita… per sempre.La triade successiva – Dream Brother, Eternal Life e Kick Out The Jams degli MC5 – è bruciante. Introdotta dall’etereo suono della voce di Jeff in perfetta unione con quello della sua chitarra – mix Fender di Telecaster e Reverb -, la prima canzone è squarciata improvvisamente da parole urlate e chitarre elettriche distorte. L’altalena tra quiete e movimento di questo brano lascia aperta la strada all’irresistibile foga delle altre due canzoni: un muro di suono impenetrabile, dalle caratteristiche e dallo spirito punk, sostenuto da una voce potente e umana. Urla Jeff al cielo: “Eternal life is now on my trial”. La pace di Lilac Wine, il profondo mare di riverbero “alla Sigur Ros”, dove è perfettamente immersa la voce fine e dalle sensibili coloriture di Jeff, sfuma volontariamente in Grace, brano più noto dell’autore. Una canzone perfetta, tutta da “sentire”. Ci si commuove su “I believe my time is come” – proseguendo in corsa verso il finale – “And I feel them drown my name / So easy to know and forget with this kiss / I’m not afraid to go but it goes so slow…”. Brano di una bellezza insostenibile, a tratti insopportabile.That’s All I Ask e Je n’En Connais Pas La Fin sono i sentiti omaggi a due delle voci più amate dal cantautore: Nina Simone e Edith Piaf; Kashmir dei Led Zeppelin – suonata come “un piastra a 33 giri suona un lp 45 giri” – è un folle scherzo proposto per sdrammatizzare, consuetudine delle sue performances.Infine Hallelujah di Leonard Cohen, immortale nell’esecuzione di Buckley che ricorda maggiormente la versione di John Cale: un’interpretazione magnetica, ogni volta diversa, che tiene l’uditorio, invitato a cantare nella profondità del silenzio in cui s’immergono le parole, teso ad ascoltare e a muovere le proprie emozioni.Il disco si chiude con un duetto, eseguito al francese “Festival of Sacred Music”, col cantante-percussionista azerbaijano Alim Quasimov. What Will You Say, acquista delle coloriture mediorientali suggestive e interessanti, che mostrano un musicista aperto a ogni tipo d’incontro musicale.
Casa discografica: Columbia
Anno: 2001
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