Nel 2002 i Mastodon scesero dalle “rosse colline della Georgia” (come le definì nello splendido “I have a dream” Martin Luther King) con camicie e rozzezza da tagliaboschi eremiti e si presentarono nel fantastico mondo del Metal con “Remission”. La gente di lì, che ha notoriamente lo stomaco di ferro ma ultimamente poco allenato, fece una certa fatica a digerire un piatto così anarchico, rozzo e pungente; anche se qualche buon gustaio li aveva già individuati come profeti che finalmente dicevano qualcosa di nuovo.Sono passati nove anni e la schiera degli adoratori del quartetto è moltiplicata in maniera tanto esponenziale da far impallidire i pani e i pesci: i Mastodon sono una tendenza oramai o, come dicono i colleghi d’oltreoceano, un gruppo mainstream, e ci sono riusciti senza farsi odiare dalla gran parte degli adoratori della loro prima fatica.Dal possente “Leviathan” passando per il buon “Blood Mountain”, che davano una certa regola all’anarchia iniziale, si è approdati inaspettatamente (forse neanche troppo) a “Crack The Skye”. I primi due già facevano apprezzare il gruppo per lo spirito dinamico e una volontà di progredire di album in album; un progresso che nell’album del 2009 è sfociato nel Progressive di qualità.Quest’ultimo, però, era anche un po’ la loro croce e delizia; la qualità era (e resta) indiscutibile, come anche il cambio stilistico che quasi ci faceva sembrare impossibile che fossero lo stesso gruppo di “Remission”; dico “quasi” perché anche con gli abiti della domenica e in atmosfere più mistiche e meno concrete la loro personalità e sopratutto la loro barba li rendono assolutamente riconoscibili.
La croce stava nell’aver perso qualche fan più fondamentalista, anche se è relativo pensando a quante nuove persone si sono interessate al gruppo, e soprattutto nel trovare una strada da percorrere dopo questa vetta, partendo dalla consapevolezza che restare su quei livelli di qualità e creare atmosfere altrettanto suggestive era molto più che complesso.
Questo peso però non tiene i Mastodon in pausa contemplativa e dopo aver girato mezzo mondo tornano subito a lavoro pronti a partorire “The Hunter”.Fin dalla copertina ci accorgiamo che c’è un pizzico di eccentricità in più con l’essere mostruoso ideato AJ Fosik, piuttosto lontano dai disegni più classici di Paul Romano: questo è un dettaglio da non sottovalutare perché ci lascia intendere che qui non ci troveremo davanti le vicende Rasputin o il capitano Ahab e sopratutto non ci sarà nessun concept da sviluppare.La seconda cosa che può saltare all’occhio è il nome del produttore: tale Mike Elizondo celeberrimo per le sue collaborazioni con Fiona Apple, 50 Cent e Alanis Morissette, per citarne alcuni, e nel Metal con gli Avenged Sevenfold.Ma ora basta con l’apparenza e passiamo alla sostanza: “Black Tongue” è un inizio convincente sopratutto dal punto di vista strumentale, con buone atmosfere e i pezzi forti del gruppo messi in mostra, a cui segue la più lineare “Curl of the Burl”, pezzo dal sapore Stoner con un intermezzo atmosferico godibile.“Blasteroid” è un discreto pezzo dinamico dal ritornello schizofrenico che mette sotto i riflettori il sempre ottimo Brann Dailor, protagonista anche nell’ottima “Stargasm”: una delle migliori canzoni dell’album, che unisce melodia e complessità, violenza e sentimentalismo.Il simpatico titolo “Octopus Has No Friends” cela una canzone che continua a mediare tra melodia e aggressività, soffrendo però della scarsa vivacità vocale nei versi e recuperando, da questo punto di vista, solo nell’epicità del ritornello; “All The Heavy Lifting” condivide gli stessi pregi e difetti della precedente (il ritornello in questo caso sembra non chiedere altro che essere cantato) aggiungendoci uno stacco sul Progressive non così maestoso.“The Hunter” crea un’atmosfera splendida (James Hetfield sembra impossessarsi di Sanders alla voce), mistica e avvolgente ma non particolarmente originale, pagando un chiaro tributo a “Crack The Skye”, mentre con “Dry Bone Valley” si riprende velocità con la voce di Brann Dailor protagonista in una canzone non eccelsa e piuttosto convenzionale che merita qualche lode solo per alcune linee melodiche.“Thickening” è uno degli episodi più originali, con il suo atteggiamento quasi estraniato, e di originalità non manca neanche la successiva “Creature Lives”, una sorta di inno, estremamente semplice e cantabile che di certo non ci saremo mai aspettati; pur essendo piacevole è molto difficile prenderla sul serio e probabilmente si sarebbe trovata più a suo agio come introduzione o outro, invece che come pausa prima dello sprint finale.Lo sprint inizia con “Spectrelight”, un brano possente che impressiona grazie alla voce del mastodontico (è il caso di dirlo) Scott Kelly; si passa poi per le buone sperimentazioni di “Bedazzled Fingernails”, per finire con l’epica e nebulosa “The Sparrow”, un’ottima chiusura.Prima dell’uscita il gruppo aveva affermato che non si erano mai divertiti tanto nella lavorazione di un album e la cosa traspare anche ascoltandolo: sembra nato naturalmente, quasi per inerzia.
Questo è positivo sotto alcuni punti di vista, ma porta anche a una coesione minore rispetto “Crack The Skye” derivante dall’assenza di un filo conduttore resistente, sopratutto dalla mancanza di veri e propri slanci creativi che stupiscano.
Più che un vero e proprio passo avanti possiamo dire che “The Hunter” sia una sintesi delle evoluzioni del gruppo in cui pesa sopratutto l’ultimo “Crack The Skye”: solitamente, dalla fusione si hanno dei risultati più complessi, ma non è questo il caso visto che i brani risultano più standardizzati e semplici del solito (la slancio creativo di cui accennavamo prima).
Ciò non toglie che è un album piacevole e valido, suonato con la solita perizia pur lasciando ai più qualche piccolo dubbio dal punto di vista vocale (anche se io non riuscirei a immaginarmi nessun’altra voce su quei pezzi).Una conferma più che un valore aggiunto, che stona un po’ nella carriera di un gruppo che ci aveva abituato a progredire passo dopo passo, ma c’è poco da disperarsi: “The Hunter” pur non essendo il picco della loro carriera è un lavoro di buona qualità che si fa ascoltare con piacere e da più di qualche soddisfazione (oltre ad essere uno dei dischi più rappresentativi di quest’anno).Per una volta si meritano di adagiarsi sugli allori, sperando che ora che sono diventati una certezza discografica nel panorama mainstream non decidano di cristallizzarsi in questo stato; hanno le qualità e il talento per sorprenderci ancora, e sarebbe un peccato sprecarlo così.
Genere: Progressive Metal
Line – Up:
Troy Sanders – voce, basso
Brent Hinds – voce, chitarra
Brann Dailor – voce, batteria
Bill Kelliher – chitarra, cori
Con la partecipazione di Scott Kelly alla voce su “Spectrelight”
Tracklist:
1. “Black Tongue”
2. “Curl Of The Burl”
3. “Blasteroid”
4. “Stargasm”
5. “Octopus Has No Friends”
6. “All the Heavy Lifting”
7. “The Hunter”
8. “Dry Bone Valley”
9. “Thickening”
10. “Creature Lives”
11. “Spectrelight”
12. “Bedazzled Fingernails”
13. “The Sparrow”
Francesco “Forsaken_In_A_Dream” Cicero
Aggiungi Commento