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Miles Davis, l’autobiografia e il ritorno al principio

Alle radici del jazz, alle radici della vita di uno dei più grandi musicisti del XX secolo.

In principio…

C’è un tema che è moto caro alla filosofia, alla scienza, alla religione, ed è il tema dell’inizio. Se prendiamo i racconti di Genesi, nella Bibbia, iniziano con «In principio era…».
La storia della filosofia cerca di risalire la corrente per arrivare all’origine della prima parola filosofica. Lo stesso la scienza ha tentato di spiegare l’origine dell’universo. Nonostante diverse discipline si interroghino sulle dinamiche del principio, il concetto stesso di Principio resta inafferrabile, complesso, non definibile in modo semplice e chiaro. 

Anche in scrittura si dice sempre che l’inizio, di un racconto o di un romanzo, sia la parte più complessa. La pagina bianca è un insieme caotico di emozioni e sensazioni che, invisibili, rendono sempre complesso l’inizio.
Benché l’inizio, sia mosso da entusiasmo, da speranza e desiderio, spesso, al suo interno vi si muovono anche paura ed angoscia per il futuro, per quello che non si conosce. L’insieme di tutto ciò è un detonatore possente di emozioni.
Miles Davis non ha avuto paura di azionarlo. 

Se dovessi riassumere la sua autobiografia con una definizione, fra le molteplici che vi potrei trovare e che sicuramente ogni appassionato lettore scoverà, sono sicuro essere questa: Miles Davis non ha avuto paura del principio. Anzi, andrei decisamente oltre: Davis per tutta la vita ha cercato di ritornare al principio, all’origine. 

Tornare al Principio

Ma che vuol dire tornare al principio, all’origine? Nel viaggio che intraprendiamo iniziando a leggere l’autobiografia di Davis, incontriamo diversi aspetti che ci riconducono all’inizio. Per alcuni aspetti controversi, per altri assolutamente sorprendenti.
Inevitabilmente il principio è controverso, a volte contraddittorio, instabile, confuso, non lineare. Molto spesso è ciò che non ci aspettiamo di trovare. La ricerca del principio può iniziare solo se siamo disposti anche a non trovarlo e, se mai lo trovassimo, dobbiamo essere disposti ad accettare che non sia ciò che avevamo immaginato di trovare. 

«Mi ricordo una volta che ero a lezione di storia della musica» scrive Miles, ricordando quando frequentava la Juilliard School of Music «La professoressa era bianca. Stava davanti a tutta la classe  a dire che la ragione per cui i neri suonavano il blues era che erano poveri  e dovevano raccogliere il cotone. Quindi erano tristi e da qui nasceva il blues: dalla loro tristezza.» [Miles Davis, Autobiografia 1989]
Immediatamente lo spirito combattivo di Miles lo fece trasalire e alzandosi ribattè alla professoressa dicendo «Io vengo da East St. Luis e mio padre è ricco, è un dentista, e io suono il blues […] e io non è che mi sono svegliato triste stamattina e ho cominciato a suonare il blues perché ero triste. C’è molto di più» [Miles Davis, Autobiografia 1989]

Miles davis

Eccolo un primo segno della ricerca del principio, la prima domanda che il grande trombettista si pone. C’è molto di più, legato all’origine del blues e non può essere ricondotta solamente all’immagine della tristezza per la condizione di schiavitù degli uomini di colore. 
L’atteggiamento nei confronti della musica, ma ancor di più della vita, è chiaro, già dalle prime pagine dell’autobiografia. 

Il primo inizio musicale fu il trasferimento a New York, con l’iscrizione formale alla Juilliard, ma con l’intenzione vera di stare appiccicato a Dizzy e Bird (Dizzy Gillespie e Charlie “Bird” Parker) dai quali, diceva spesso, avrebbe imparato di più che frequentare qualsiasi scuola di musica. Così accadde, perché dopo pochi anni abbandonò la Juilliard, per dedicarsi interamente alla musica Jazz, accompagnato da due maestri d’eccezione. 

Un altro inizio fu abbandonare la band e iniziare a suonare la sua musica. Un nuovo inizio, per il be-bop, dagli anni 50 agli anni 60. Poi nuovamente un inizio, un cambiamento, un rivolgimento.
Ma se penso all’immagine di Davis come un musicista rivolto con lo sguardo al futuro, sento che sto mentendo. Non sto dicendo che non abbia aperto nuove strade musicali, nuovi sentieri che nessuno aveva battuto prima. Questo non posso dirlo, in quanto è stato un innovatore, ma è lo sguardo che mi/ci inganna. 

Dentro… 

Anni fa partecipai ad una lezione sul Jazz di Paolo Fresu. In un mio precedente articolo avevo raccontato del suo libro e di come il trombettista italiano si innamorò di Miles.
Durante questa lezione ci raccontò di un aspetto che riguardava la postura di Davis. Quando suonava la schiena era inarcata e la tromba era diretta verso il basso, quasi a chiudersi verso l’interno di una specie di arco che Davis formava. Non cercava le note lontano, non le voleva suonare e far arrivare ovunque, era come se le volesse trattenere attorno a sé, andarle a cercare dentro di sé. Trovare il suo principio, l’origine. 

Per fare ciò doveva essere disposto ad accogliere qualunque cosa dall’esterno, a lasciar andare, a modificare senza trattenere. Smontare, rianalizzare, destrutturare e risuonare tutto, ogni volta, come se fosse l’ultima, come se non l’avesse mai suonato prima.
Ogni brano, ogni live era un viaggio interminabile, dove, a volte nemmeno il suo iniziare si sentiva, poiché non vi era un attacco netto e definito, ma molto spesso la musica entrava fluida e leggera. 

L’autobiografia, le pagine che vi propongo oggi sono, per me, questo: un viaggio alla ricerca del principio. L’inizio del jazz, forse, l’inizio del suono, la scoperta del suo suono. L’origine del blues, del suo essere uomo, nero, in una nazione ancora razzista. Il suo essere in catene, la sua liberazione, la sua emancipazione. Il suo essere stato allievo e poi maestro. Il suo essere stato Miles Davis, aver rivoluzionato la musica puntando all’origine, guardando al suo principio, scarnificando e togliendo, partendo non dal suono, forse, ma dal silenzio. 

Buona lettura.


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