Che gli Opeth abbiano abbandonato gli elementi più aggressivi del loro bagaglio espressivo per scelta artistica o necessità (Mikael Åkerfeldt ha ammesso in recenti interviste di avvertire dei fastidi cantando in growl) è ormai secondario; con “Pale Communion” ci arriva infatti la conferma che, per l’infelicità dei tanti irriducibili fan del vecchio corso, gran parte degli elementi che resero dei capolavori album come “Still Life” (1999), “Blackwater Park” (2001) e “Ghost Reveries” (2005) sono, e probabilmente resteranno, in esilio.Al venir meno dell’aggressività vocale e strumentale consegue un cambio di fondamenta: il progressive metal è estirpato e sostituito da un progressive rock che, seguendo i gusti mai nascosti di Åkerfeldt, attinge direttamente da decenni dorati come gli anni ’60 e ’70, e accanto ad esso fiorisce, inoltre (qui più che nel precedente “Heritage“), quell’oralità intimista e malinconica che aveva fatto la fortuna dell’ottimo “Damnation“.
Quest’oralità si traduce in un’attenzione peculiare per le melodie vocali che, portando in scena tematiche profondamente personali, assumono un ruolo fondamentale. Ascoltare “Pale Communion” significa, quindi, immergersi in narrazioni emotivamente coinvolgenti, sorrette da un’architettura strumentale non imprevedibile ma comunque complessa, e soprattutto particolarmente raffinata.Le deliziose atmosfere gotiche di Eternal Rains Will Come aprono l’album con un’essenzialità ed un’eleganza che caratterizzano gran parte del lavoro. Elementi che danno smalto anche ai momenti più lineari, come la delicata Elysian Woes, ma che apprezziamo soprattutto nei brani più ambiziosi, come le epopee di Moon Above, Sun Below e River, la strumentale Goblin (dedicata all’omonimo gruppo italiano) e, in particolare, nei due brani finali (l’autorevole Voice of Treason e l’ascetica Faith In Others), impreziositi dall’introduzione di elementi orchestrali.Non si può negare che bandendo le componenti più feroci dalla loro musica gli Opeth abbiano perso, oltre che una fetta considerevole dei loro ammiratori storici, l’intensità impressionante che ha prodotto tanti capolavori indiscutibili. Ma, allo stesso modo, non si può negare neanche che Åkerfeldt e soci siano ancora in grado di creare brani di spessore, attraverso un songwriting impeccabile e una piacevole cura nei dettagli (sottolineiamo l’ottimo lavoro di Joakim Svalberg alle tastiere).
Per questo, rispetto ad “Heritage”, “Pale Communion” è un passo più convinto e convincente; che l’apice artistico degli Opeth sia ormai lontano, alle loro spalle, è palese, ma la band svedese sembra aver imboccato il viale del tramonto con una dignità particolarmente apprezzabile.
Francesco CiceroGenere: Progressive Rock
Line-up:
Mikael Åkerfeldt – voce, chitarra
Fredrik Åkesson – chitarra, cori
Joakim Svalberg – piano, tastiere, cori
Martín Méndez – basso
Martin Axenrot – batteria, percussioni
Tracklist:
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