Si stenta a credere che dietro la maschera futuristica che ci fissa apaticamente dall’alto di un plasticoso trono color chewing gum, ci sia la stessa Annie Clark, in arte St. Vincent che si era presentata qualche anno fa (peraltro troppi pochi per giustificare anche solo i capelli bianchi) come ragazza acqua e sapone proveniente direttamente dalla porta accanto.
Una metamorfosi radicale, come dimostra la copertina di questo album omonimo, dovuta principalmente al passaggio della musicista statunitense da un’etichetta indipendente (ossia l’ottima 4AD, che ha pubblicato “Actor” e “Strange Mercy“) ad una major (nello specifico Loma Vista/Republic Records) e la conseguente necessità di mettere da parte la semplicità spontanea e poco appariscente dei primi tre lavori a favore di un personaggio stravagante e riconoscibile, capace di attirare vistosamente l’attenzione.Fortunatamente, però, “St. Vincent” non verrà ricordato principalmente per il look della protagonista, poiché Annie Clark riesce a comporre un Pop tanto brillante da far passare in secondo piano qualsiasi eccentricità estetica (a differenza di molti colleghi che su quest’ultima basano la loro carriera). Anche se ciò non significa, comunque, che musica e aspetto non abbiano nulla in comune: St. Vincent appare e suona con una sicurezza ed una personalità del tutto nuovi.Una personalità tale da consentirle di destreggiasi in maniera aggraziata tra il deserto psichedelico pullulante di serpenti rappresentato in “Rattlesnake“, la chitarra spigolosa dell’energica “Birth In Reverse” e il delicato ed evocativo tappeto tessuto dalle tastiere in “Prince Johnny“. “Huey Newton” fonde gli elementi principali dei brani precedenti sintetizzando l’atteggiamento bipolare dell’intero album (testi compresi), tra la dolcezza della prima parte e il riff sbruffone che dà movimento alla seconda, mentre nell’irresistibile “Digital Witness” va in scena una brillante e paradossale critica all’ossessione del nostro tempo per i social network (“What’s the point of even sleeping / if I can’t show, if you can’t see me, / what’s the point of doing anything?”).La lenta e toccante “I Prefer Your Love“, dedicata al rapporto con la madre, segna la metà dell’album distaccandosi, con la sua fragilità, sia da quello che precede che da quello che segue. “Regret” e “Psychopath” affascinano grazie a due ritornelli incantevoli, e, nel mezzo, l’ossessionata “Bring Me Your Loves” colpisce in maniera intricata ma trascinante. Nel finale, dopo la lenta cavalcata nel paesaggio surreale di “Every Tear Disappears“, abbiamo l’inaspettata coralità di “Severed Crossed Fingers“: un brano dal carattere classico che riesce a ricordare il David Bowie di “Hunky Dory“.Oltre il Duca Bianco, nell’album omonimo di St. Vincent ritroviamo l’eleganza di artisti come Kate Bush, Prince e, naturalmente, il mentore David Byrne; la collaborazione tra quest’ultimo e Annie Clark non ha avrà prodotto un capolavoro, ma ha senza dubbio lasciato il segno sulla cantautrice e questo disco. “St. Vincent” è un lavoro delizioso e maturo, in cui una voce incantevole lega con grande carattere dolcezza e disillusione, ritmi cacofonici e melodie delicate. Con quest’album Annie Clark aggiunge un’altra, bellissima, perla ad una discografia che era già estremamente preziosa.Francesco CiceroGenere: PopLine-up:
Annie Clark – voce, chitarra
Homer Steinweiss – batteria
Bobby Sparks – minimoog
Daniel Mintseris – synth, piano
Ralph Carney – ottoni
McKenzie Smith – batteria
Adam Pickrell – tastiereTracklist:
Artisti simili: Joanna Newsom, Anna Calvi, Beach House, Björk, Kate Bush
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