Juju è il secondo album che Wayne Shorter ha inciso per la Bluenote, etichetta che negli anni ’60, riunendo nelle stesse produzioni i migliori musicisti allora disponibili, ha prodotto alcuni dei dischi divenuti pietre migliari nella storia del jazz. Il titolo dell’album è, come spiegò lo stesso Shorter nelle note di copertina del disco, molto evocativo e vuole da subito far capire all’ascoltatore in che universo musicale sta per calarsi: Juju è la parola africana che giunta ad Haiti è stata tradotta con Vodoo e rappresenta quindi tutta la tradizione di magia e riti religiosi provenienti da quel continente che, negli anni sessanta, i musicisti di colore americani cominciarono a percepire come la loro vera patria. Il titolo dell’album non deve comunque ingannare, non si è di fronte ad un disco dedicato all’Africa in senso stretto (non ci sono tracce “mimetiche” come Footprints del 1966), piuttosto ad un viaggio introspettivo di cui l’Africa è il punto di partenza. Il risultato è un album descrittivo in cui ogni titolo ha un significato ben preciso che l’autore spiega nelle note di copertina. Particolarmente interessante è Majhong (il gioco cinese di cui Shorter aveva un set), un brano dalla forma piuttosto particolare nel quale l’oriente e l’Africa sembrano fondersi grazie alle melodie pentatoniche di sax e piano da una parte ed alla ritmica dilatata di batteria e contrabbasso dall’altra.Altro brano di assoluta rilevanza è Yes Or No, costruito sulla contrapposizione di due stati mentali, uno positivo ed armonicamente maggiore (secondo le parole di Shorter stesso) ed uno negativo, ricco di scetticismo e basato su un’armonia minore. Juju è un disco ricco della magia promessa dal titolo, data dall’utilizzo sapiente che Shorter fa del materiale melodico e dall’interplay con cui la ritmica, formata da McCoy Tyner al pianoforte, Elvin Jones alla batteria e Reggie Workman al contrabbasso, impreziosisce i brani lavorando sempre in perfetta sintonia col solista.Tyner e Jones venivano da una carriera parallela che li portò, fra le altre cose, nello stesso anno di realizzazione di Juju ad incidere A Love Supreme con John Coltrane; Workman, anch’egli sideman per Coltrane in diverse occasioni, veniva da una breve esperienza con Shorter nei Jazz Messangers di Art Blakey e venne scelto per incidere su Juju per il suo suono dotato di una profondità notevole. Vale la pena spendere due parole anche per il suond engineer che si è occupato sia dell’originaria registrazione dell’album sia della rimasterizzazione: si tratta di Rudy Van Gelder che nel corso della sua lunghissima carriera ha prodotto, rendendo al meglio i desideri dei musicisti, innumerevoli album per i più grandi musicisti. Ad arricchire ulteriormente il cd ci sono due “alternate takes” (Juju e House Of Jade) particolarmente utili per chi desideri esplorare il linguaggio di un compositore che avrebbe lasciato il suo marchio in progetti come il Miles Davis Quintet ed i Weather Report.
Casa discografica: Blue Note
Anno: 1964
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