Dal ragazzo che tentava disperatamente di scoprire il segreto del suono di Van Halen al primo album per la Shrapnel, considerato ancora oggi uno dei migliori lavori di shredding di tutti i tempi, passando per le collaborazioni di lusso con Michael Jackson e Justin Timberlake, Greg Howe è rimasto nel tempo un personaggio di culto, senza mai attraversare veramente il confine del grande successo. Il nuovo album ne conferma le doti di strumentista.
Dopo aver dedicato qualche anno alla band Maragold, progetto di canzoni rock di più largo consumo con tanto di bionda e vistosa cantante, nel nuovo album è tornato pienamente alle origini con nove pezzi in cui la sua chitarra si esprime ad altissimi livelli di tecnica ed espressività.
E ce n’è per tutti, purché amanti della moderna rock fusion per chitarra e dei lunghi viaggi su tastiere sconfinate con poche soste solo per riprendere il fiato.
Tornato di recente fra i protagonisti delle dei grandi eventi internazionali, grazie anche alla collaborazione attiva con produttori come Kiesel Guitars e DV Mark amp, Howe è oggi nel pieno di una fervida attività che l’ha visto in sala con la band di Simon Phillips e ora in tour con Stu Hamm e Dennis Chambers per la promozione del suo album.
Wheelhouse si apre dinamicamente con “Tempest Pulse”, brano frizzante in cui la matrice cubana incontra efficacemente il funk consentendo a Greg di esprimere pienamente una cultura chitarristica sofisticata che non manca mai di gusto né di grinta. La ritmica sincopata si completa alla perfezione con le linee melodiche del tema.
La seconda traccia dell’album, “2 in 1”, si muove in un territorio ancora diverso, affrontando in maniera trasversale lo swing degli anni ’40. La prima parte è dedicata a un’interpretazione hard-funk che contrasta efficacemente con il resto in cui tutto torna a riferimenti tradizionali con un bell’assolo di Hammond di Ronnie Foster, veterano delle band di Stevie Wonder e George Benson.
Bella la prestazione di Howe alle prese con un linguaggio più strettamente jazzistico.
I toni si fanno più “cattivi” già con la seguente “Throw Down” e una volta arrivati a “Land Slide” Greg si può permettere di mettere assieme fraseggi velocissimi e sonorità più acide, ospitando anche un intricato assolo di basso, presumibilmente eseguito dal pirotecnico Stu Hamm.
Non c’è nulla di più funzionale in un album strumentale come questo di una traccia acustica per evitare il rischio – sempre presente – di annoiare l’ascoltatore meno coinvolto in questo genere di musica. Per Howe si tratta di “Key to Open”, breve intermezzo strutturato intorno a una serie di idee ritmiche originali e arpeggi di origine classica. Non straordinario, ma efficace.
Particolarmente cantabile e pastoso il timbro dell’elettrica solista in “Push On”, dedicata a una fusion più melodica, seguita da “Let It Slip”, aggressiva e ispirata, in cui l’anima rock del chitarrista prende finalmente il sopravvento in un crescendo trascinante supportato da un funk groove perfetto allo scopo.
Non si distacca troppo “I Wonder” con una ritmica fortemente caratterizzata dall’uso del wah, prima della conclusiva “Shady Lane”, unico pezzo cantato, scritto con il fratello più di 20 anni fa.
La canzone è marchiata a fondo dalla voce roca e appassionata di Richie Kotzen, che ha a disposizione anche uno spazio per la sua elettrica in un bell’assolo grintoso.
Non è l’originalità la caratteristica di Wheelhouse e Greg Howe non vuole certo entrare in competizione con i rari musicisti capaci di scrivere musica di livello elevato anche in questo contesto, ma un album così è sicuramente un fiore all’occhiello anche dopo un trentennio di carriera, confermandolo tra i chitarristi più interessanti e preparati partoriti dall’era dello shred.
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