All’inizio di quest’anno, uno degli eventi maggiormente sotto i riflettori internazionali è stato sicuramente il Celebrating David Bowie, grande show di beneficenza nato da un’idea dell’attore Gary Oldman con l’obiettivo di rendere omaggio al grandioso panorama discografico del geniale artista inglese, coinvolgendo tanti suoi musicisti e tanti ospiti speciali.
Il tour ha toccato ben 4 continenti e forse non tutti sanno che al timone del banco mixer, nell’arduo quanto elettrizzante compito di tenere insieme decine e decine di suoni, c’era un italiano, il nostro grande amico Andrea Pellegrini.
Oggi, a tour concluso, abbiamo l’occasione di parlare con lui di questa esperienza.
Ciao Andrea, è veramente un piacere risentirti dopo tutte queste esperienze internazionali, prima con i King Crimson, ora con questo grande spettacolo itinerante in 4 continenti per celebrare il mito di David Bowie. Da dove nasce la tua collaborazione con questo grande show?
Ciao Salvatore e ovviamente un saluto a tutti i MusicOffili.
L’idea del Celebrating David Bowie nasce in realtà da un’occasione totalmente diversa, seppur sempre in ambito musicale, cioé dall’organizzazione del party per l’uscita del documentario di Ron Howard sui Beatles Eight Days A Week.
Si trattava di una serata a Los Angeles in cui era coinvolto anche Adrian Belew, noto fan dei quattro di Liverpool, e proprio durante la festa ha preso forma l’idea di una celebrazione di David Bowie ad un anno di distanza dalla sua scomparsa.
Il tutto coinvolgendo i musicisti storici che hanno affiancato sul palco e nei dischi l’artista nel corso dell’intera carriera, più alcuni ospiti del giro dei musicisti della Città degli Angeli.
Adrian Belew, con il quale lavoro come ingegnere del suono da alcuni anni, mi ha quindi chiamato in virtù della mia esperienza con il suo complesso guitar rig: sistema che è un ibrido tra l’Axe-Fx della Fractal, il Gp-10 della Boss, Ableton sia per il controllo MIDI che per eventuali loop e sample. È un rig che in pratica conosciamo profondamente solo io e il suo personale guitar tech.
Sono quindi stato contattato a luglio dagli organizzatori per la mia disponibilità sia come personal per Adrian che come F.o.H., senza però avere ancora una precisa idea delle dimensioni che avrebbe preso nei mesi successivi questo show.
Nel corso del tempo, infatti, da una situazione di basso/batteria/tastiere/pianoforte/chitarre e voci, tutto è letteralmente “esploso”. Si sono prima di tutto aggiunti molti altri musicisti, creando quindi un turnover su taluni strumenti, ma soprattutto sono state molte le richieste da parte di varie location in giro per il mondo.
Già a novembre avevamo: O2 Academy Brixton a Londra, Terminal 5 a New York, il The Wiltern a Los Angeles. Si sono poi aggiunte l’Opera House di Sidney e la Dome City Hall di Tokyo.
Ci siamo resi conto che la situazione non poteva essere più sostenuta da una sola persona al mixer, considerando il fatto che avevamo oramai sul palco oltre agli strumenti suddetti, un intero coro gospel, una ricca sezione d’archi, una sezione di fiati e molto altro.
Quindi ci siamo trovati in due al banco, in modo che io potessi curare la parte prevalentemente “rock” degli strumenti, mentre il secondo tecnico teneva d’occhio tutte le sezioni aggiunte di archi, fiati, cori etc…
La scelta è stata l’ottimo Felix Brenner, per chi non lo conoscesse basti dire che è il fonico di John Fogerty. È stato un piacere ed un onore dividere il mixer con lui, scoprendo un fonico eccezionale ed una persona carinissima.
Il sistema che abbiamo creato è stato “modulare” e lo abbiamo fatto funzionare con grande feeling tra noi, tanto che a volte ci siamo anche scambiati i compiti, un po’ per rendere varia la nostra esperienza, un po’ ovviamente per rispetto di entrambi, di modo che ognuno avesse a che fare con la parte “main” dello spettacolo.
Parliamo in maniera più approfondita del palco, assai ampio e popolato ed in più da interfacciare con i vari ospiti. artisticamente e tecnicamente deve essere stata una bella sfida, viaggiando in vari continenti in così breve tempo e trovandosi ogni volta in luoghi e situazioni diverse.
Fortunatamente i banchi mixer sono stati sempre gli stessi, abbiamo infatti usato i DiGiCo SD7 sia per la sala che per il palco, ci ha aiutato di gran lunga il non dover ripartire ogni volta da zero (e bisogna considerare che gli utili di questo show sono stati devoluti in beneficenza, quindi “purtroppo” a sacrificio delle prove tecniche).
A Londra il giorno del 70° compleanno di Bowie siamo partiti con il banco “vuoto”; la stessa sera alle sette avevamo preparato il tutto per il grande panorama di strumenti che abbiamo detto prima.
È stata una grande soddisfazione per tutto il comparto tecnico ricevere i giorni successivi delle recensioni molto positive su vari siti, tutto aveva funzionato bene. Review entusiastiche che sono continuate anche successivamente e che hanno confermato la bontà del progetto.
Sul palco. Bè, sul palco al timone c’era sicuramente il magnifico pianista/tastierista Mike Garson, inseparabile compagno di avventure di Bowie, con lui dai tempi di Aladdin Sane (in realtà gia’ presente negli ultimi tour di Ziggy Stardust).
Con lui alla guida c’erano poi ovviamente Adrian Belew, Earl Slick (chitarra), Gail Ann Dorsey (basso), Mark Plati (chitarra/basso), Holly Palmer (cori), Sterling Campbell (batteria) e vari ospiti fissi come Angelo Moore dei Fishbone (un artista a dir poco camaleontico e dalla voce pazzesca) e la straordinaria cantante Gaby Moreno, già vincitrice di un Grammy Award.
In più, c’erano gli ospiti speciali: a Londra Simon Le Bon (Duran Duran), Tony Hadley (Spandau Ballet) e Joe Elliot (Def Leppard), a Los Angeles Sting, a New York i Living Colour e il Colonnello Chris Hadfield, cioé l’astronauta che anni fa fece quel famosissimo videoclip della sua cover di “Space Oddity” girato sulla stazione spaziale. Sia in Australia che in Giappone abbiamo avuto star locali, da considerare, come portata, come un Vasco o un Ligabue e simili in Italia, con centinaia di migliaia di fan nei rispettivi paesi.
Tra tecnici, artisti ed altro, si trattava ogni volta di spostare circa 40 persone da un continente all’altro. Lo spirito di squadra è stato fondamentale affinché tutto riuscisse in maniera perfetta.
Un vero e proprio allestimento tecnico non avevamo modo di farlo, cosicché il tutto è stato gestito il più possibile via email con i contatti delle location. Dal direttore di palco, a quello di produzione, a tutti i vari tecnici, ai backliner (che hanno svolto un lavoro davvero incredibile considerando il numero di strumenti sul palco), tutti hanno dato il massimo.
E anche per questo, al di là della fatica e dell’attenzione sempre al massimo, posso dire che ci siamo decisamente divertiti, il che non è certo secondario. Un team di prima categoria, che ha generato anche amicizia e stare bene assieme fuori dal lavoro.
Personalmente ho apprezzato anche la scelta dei brani di queste 3 ore di spettacolo, che contenevano le pietre miliari, ma anche pezzi meno conosciuti ma non per questo meno belli, regalando ai fan di Bowie un’esperienza unica e completa.
Ho nel cuore il momento dell’ingresso sul palco di Belew con la sola chitarra classica e la sua introduzione strumentale sulle note di “Life on Mars”, con il pubblico che si divideva tra quelli con il naso all’insù e bocca aperta e quelli che iniziavano ad intonare la canzone sull’accompagnamento di Adrian.
Hai tu stesso sperimentato esperienze tecniche particolari?
Una cosa che mi è piacuta molto è stata la decisione di tutti di lavorare “alla vecchia maniera”, umanizzando anche la parte tecnica. Abbiamo tutti sfruttato le potenzialità degli apparecchi digitali nel mantenere in memoria tutto il necessario (fondamentale) ma per il resto lavorando esattamente come si faceva una volta con l’analogico, ovvero seguendo la musica ed i musicisti in tempo reale, diventando noi stessi parte dell’ensemble musicale e giocando il nostro ruolo nella riuscita dell’opera.
Non ci siamo focalizzati sul creare scene o altre procedure sicuramente spesso utili ma che rischiano di distoglierti dal gestire una serata con così tanti cambi palco, tante variazioni.
Abbiamo quindi mixato ogni sera in real time, mettendo al comando la musica stessa, seguendola. Parlo di noi fonici, ma anche dei backliner e degli altri tecnici.
Occhi incollati al palco, aprire e mutare i canali al volo, missare la musica con la propria sensibilità al momento. Niente automatizzazioni insomma. Impegnativo ma decisamente divertente.
In questo modo siamo partiti molto bene a Londra e siamo finiti ancora meglio a Tokyo, ultima data, perché noi stessi ci affinavamo nei dettagli. Affinavamo la componente “umana”.
La gestione dello show è stata impegnativa, considerando che avevamo 78 canali attivi su banco. Ognuno degli archi aveva il suo microfono. Nel coro c’era un microfono ogni due coristi (per 15/16 persone di media). I fiati avevano ognuno il suo microfono. Voci, chitarre, batterie, percussioni e così via…
Proprio per questo la scelta di lavorare in questo modo è logica nella direzione di mantenere tutto il più semplice possibile, senza infilarsi in soluzioni più moderne e complesse, data la situazione per lo più “pronti, attenti, via” di ognuna delle date.
Interessante, ma levaci una curiosità: come fate a capirvi al volo tra fonici in questa modalità di lavoro? Sembra quasi un “dialogo” tra musicisti durante una jam.
Richiede molto, molto feeling. La fortuna ha voluto che ci siamo tutti trovati fin da subito bene, sia dal punto di vista lavorativo che personale, e tutti avevamo ben chiaro il fine. Abbiamo quindi remato nella stessa direzione e con la stessa intensità.
Sono quelle cose che, proprio come tra musicisti, o funzionano da subito oppure è meglio correre ai ripari. Nel nostro caso, è stata una jam session perfetta.
Qual è il tuo ricordo più bello e quale l’aneddoto più divertente?
Bè, gli aneddoti sono due.
Il primo è che Adrian mi ha presentato a tutti come “Pelle”, il mio soprannome da sempre.
Divertente è stato sentirlo con le pronunce più varie: da “Pelley” (gli americani), a “Pellay” (gli inglesi), ma la cosa singolare era comunque parlare con Mike Garson o Tony Hadley e altri e sentirmi chiamare con il soprannome che usano i miei amici di sempre. Straniante, ma divertente.
Il secondo, invece, è l’essere stato presentato a Sting come “il nostro fonico dalla Toscana”. Lui, da anni proprietario di una villa nelle colline toscane, ha iniziato subito a parlarmi in italiano e io non ho potuto non dirgli “certo che abitiamo a mezz’ora di auto, son dovuto venire a Los Angeles per conoscerti“, con risate di tutti.
Per quanto riguarda il ricordo più bello, sicuramente l’ingresso all’Opera House di Sidney. È un posto sacro per la Musica con la M maiuscola, lì non si scherza. Non solo io, tutti siamo rimasti a bocca aperta.
Paradossalmente, a livello acustico è un posto non facile, è molto alto, la gestione audio non è assolutamente così scontata. Ma grazie ai tecnici residenti, che conoscono il posto in maneria perfetta, e ai loro consigli abbiamo tirato fuori il massimo.
Inoltre mi rimane nel cuore proprio il clima che ho vissuto a livello personale, una perfetta interazione umana e professionale da tutte le parti. In più non c’è stata alcuna forma di egocentrismo da nessuno degli artisti e ospiti, il fine era davvero celebrare l’opera di Bowie.
Ultima domanda, dovuta: tornerà lo show? E in Italia?
Al momento è tutto ufficioso, ma l’idea è sicuramente quella di riproporre lo show in futuro e di portarla anche in altri paesi, Italia compresa.
Non so quali saranno le modalità, ma l’obiettivo dell’organizzazione è tornare sul palco, includendo anche quello di Berlino, così importante nella storia di Bowie, che purtroppo non è stato possibile toccare a gennaio per alcuni problemi di organizzazione.
Nonché riproporlo nei luoghi in cui siamo stati, visto che tutte le date sono state sold-out, e parlo di sold-out reali…
Lo spettacolo ha ricevuto apprezzamenti sia dal pubblico che dagli esperti del settore, tutti i musicisti coinvolti hanno vissuto un’esperienza splendida e il team è solido e in grado di portare in giro per il mondo una celebrazione che rende merito alle opere musicali del genio David Bowie.
Sono felice ed onorato di essere stato chiamato a far parte di quest’avventura, e nel caso lo spettacolo continui, sarò ben felice di farne nuovamente parte.
Un’ultima cosa rimarchevole di questa esperienza è stata quella di ricevere una vera e propria ondata di affetto da amici cari (voi siete chiaramente inclusi!) e colleghi, che mi hanno fatto sentire in maniera incondizionata la loro vicinanza. Questa è forse la più preziosa emozione che mi porto dietro da questo tour.
Cover photo by Adam Bielawski
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