John Renbourn, Bert Jansch e lo sviluppo di una nuova scuola di chitarra acustica nell’Inghilterra degli anni settanta.
Ricordo molto bene questa intervista anche a distanza di trent’anni perché avveniva nei camerini di un teatro bergamasco dove poco dopo avrei dovuto aprire la serata con la mia musica, chitarra alla mano. Compito delicato di fronte a due personaggi che avevano segnato il mio immaginario di chitarrista acustico.
All’epoca i due artisti avevano alle spalle lunghi anni di collaborazione e l’esperienza importante dei Pentangle, band con cui avevano sperimentato le contaminazioni più varie fra musica tradizionale inglese, americana, blues, jazz ed elementi etnici.
Nel momento di massimo fulgore delle nuove tendenze e con piena concentrazione dei riflettori su personaggi dalla tecnica stupefacente come Michael Hedges, Renbourn e Jansch si limitavano a proporre di nuovo insieme sul palco il loro inimitabile stile elegante ed essenziale. Qualcosa che aveva influenzato alla base gran parte dei nuovi strumentisti e anche qualche noto musicista rock.
Qualcuno potrà forse sorridere alla rievocazione di un’epoca in cui i chitarristi londinesi facevano a gara per farsi prestare l’unica Martin esistente in città, ma l’odore di forte creatività e del fermento che deve aver animato il periodo è talmente forte da superare il limite delle parole.
Sarà forse anche il fatto che l’intervista veniva pubblicata nel n.20 di Chitarre del novembre 1987, in un giornale ancora giovanissimo, ma rileggerla fa un certo effetto…
Nella prima metà degli anni sessanta voi avete cominciato a occuparvi di alcuni tipi di musica americana, blues, folksong… Che cosa vi ha stimolato in questo senso: dischi, radio, musicisti?
J.R. – Posso rispondere io. Alla fine degli anni cinquanta ci fu una grossa ondata di entusiasmo per un genere musicale chiamato skiffle, hai presente? Eravamo prima del boom del rock’n’roll e questa musica riempiva costantemente gli spazi radiofonici e televisivi.
Un’intera generazione prese in mano la chitarra per suonare in un gruppo di skiffle e dopo di ciò diversi musicisti folk americani come Big Bill Broonzy, Josh White, Jesse Fuller, Jack Elliott, vennero da noi a suonare, e tutti quelli che erano fino ad allora immersi nello skiffle si trovarono a confronto all’improvviso con il fingerpicking. Fu un cambiamento notevole.
Ecco dove è cominciato tutto. Allora artisti come Bert, Davey Graham, Jerry Lockart, che suonavano il blues tradizionale di Brownie McGhee e Big Bill Broonzy, cominciarono lentamente a sviluppare un proprio stile più autonomo.
In quel periodo suonavate già materiale tradizionale delle isole britanniche?
J.R. – Questo è successo un po’ dopo la mania dello skiffle; ci fu un folk revival in tutta l’Inghilterra ma non prima dell’inizio degli anni sessanta e lo skiffle ci aveva già messi a confronto con la musica americana. Allora i soli posti dove suonare erano i folk club, caratterizzati da un’ottica molto tradizionalista.
Lì la chitarra non era accettata perché non faceva parte della tradizione inglese, e neanche gradivano un qualunque tipo di accompagnamento alle canzoni tradizionali perché queste non avevano bisogno di essere accompagnate.
Cosi, quando Bert, Davey ed altri cominciarono a muoversi in autostop in Francia e nel resto dell’Europa, ebbero la sorpresa di trovare dei club che non erano così conservatori.
B.J. – E contemporaneamente nei club avevamo modo di incontrare gli stessi cantanti tradizionali, gente anziana in genere… Così, ascoltandoli, ho imparato molto materiale tradizionale scozzese. Ma non c’erano limiti, ascoltavamo di tutto, anche musica classica, indiana, un misto.
Sembra di capire che Davey Graham sia stato una specie di pioniere nel vostro ambiente: cos’era, dunque, che lo rendeva così interessante?
J.R. – Beh, suonava tutto ciò che poteva essere interessante; tutto ciò che faceva lo era.
B.J. – Il bello di Davey è che, qualunque cosa ascoltasse, un brano di Charlie Mingus per esempio, era in grado di trasporlo immediatamente sulla chitarra con l’intero arrangiamento.
E sfruttava anche accordature aperte?
J.R. – In genere quella standard, ma è stato lui, per esempio, a inventare l’accordatura cosiddetta DADGAD. Ora Pierre Bensusan è quello che la sfrutta di più, ma fu Davey a elaborarla quando era in Marocco e ascoltava i suonatori di oud, una corda per la melodia e le altre come tappeto armonico-ritmico.
Ricordo che Jimmy Page in un’intervista raccontava di aver conosciuto attraverso di te, Bert, le accordature aperte e un certo tipo di tecnica acustica, vedi lo strumentale «Black Mountain Side» su Led Zeppelin I…
B.J. – Per quel brano Page prese una canzone dal mio repertorio, «Black Water Side», e ne incise l’accompagnamento tale e quale, togliendo la melodia cantata.
Che tipo di accoglienza avete avuto suonando blues in Inghilterra, venti o venticinque anni fa?
J.R. – Ottima.
Anche da parte dei più tradizionalisti?
B.J. – Beh, un certo gap iniziale abbiamo dovuto superarlo prima di riuscire a suonare le nostre cose in un folk club.
J.R. – Ma questo dura ancora oggi. C’è un posto vicino casa mia in cui tuttora non accettano strumenti e cantano senza accompagnamento. Dan Ar Bras è stato lì di recente con la sua chitarra elettrica a doppio manico suonando musica stupenda, ma per loro erano cose d’un altro pianeta. Non riuscivano neanche a capire, accettare.
E quando la chitarra era così poco considerata nell’ambiente era facile reperire strumenti di buon livello?
J.R. – No, al contrario! Ai vecchi tempi c’era praticamente una sola persona che possedeva una Martin e tutti gliela chiedevamo in prestito cercando di tenerla il più a lungo possibile. Circolavano delle Levin, Harmony, ma niente di veramente buono. C’era un bravo liutaio di nome John Bailey negli anni Sessanta che costruiva buoni strumenti.
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