Il maestro della chitarra acustica che ha reso popolare l’accordatura DADGAD in un’intervista a tutto tondo in cui racconta la sua passione musicale e la lunga carriera.
Appassionati, colleghi professionisti, critici e tecnici del settore, tutti sono in totale accordo nel considerarlo, in maniera incondizionata, uno dei massimi esponenti della chitarra acustica, nel ricco e vasto panorama mondiale in continua trasformazione.
Pierre Bensusan ha attraversato ormai oltre quattro decadi di attività ininterrotta, riuscendo a rappresentare un punto di riferimento solido, concreto e duraturo per tutti gli amanti dello strumento, sia in Europa che in America, ma altresì a estendere il proprio seguito oltre i confini più lontani (anche chitarristicamente parlando).
Partito a soli diciott’anni con la premiazione sul palco del prestigioso Festival di Montreux, ha alle spalle una lunga e ricca carriera concertistica che quest’anno lo vedrà anche in tour in Cina, in attesa del nuovo album e di un nuovo libro per l’editore Hal Leonard.
Dal 1978 la sua chitarra è sempre una Lowden, dallo storico strumento che lo ha accompagnato per decenni all’ultima elaborazione del maestro liutaio irlandese.
DADGAD rimane per lui l’accordatura standard, quella che gli ha permesso di creare uno stile e di evolvere musicalmente oltre i confini dei suoi inizi.
Suonare dal vivo è sempre una sfida, come ti prepari per superare le difficoltà?
Cerco di non impormi troppo sulla scena: la mia persona è secondaria, voglio che al centro ci sia la mia musica. Cerco di essere sempre responsabile e presentabile, in modo che le persone non siano distratte dalla mia presenza, ma si concentrino solo sulla musica. È sempre difficile pensare di suonare di fronte a molte persone, ma alla fine non pensi più a quello.
Credo che le persone vengano a sentirmi perché abbiamo qualcosa in comune, la musica è un dono: viene fuori da me, passa a loro e alla fine della giornata diventa di tutti. Per me è anche molto interessante andare ad altri concerti, per vedere come gli altri musicisti si approcciano al pubblico e capire cosa tu ti aspetti, come spettatore.
Alla fine ho capito che quel che vogliamo è dimenticare noi stessi e far dimenticare agli altri di essere lì. La poesia, il cinema, la musica e la letteratura hanno questo in comune: per un attimo ci permettono di uscire da noi stessi e dimenticarci di tutto, persino di noi.
Vogliamo sentire di essere parte di qualcosa di molto più grande. Così, quando sono sul palco, è questo che cerco di dare alla gente, perché so che li rende felici.
E se riesco a farlo anche solo una volta sono felice anch’io. Cerco di mettere nella mia musica ciò che sento dentro di me e porgo questo regalo al pubblico.
Come si concilia la tecnica strumentale con la qualità del suono e il comfort nel suonare?
Lavorando sodo. Come dico sempre, bisogna fare in modo che ciò che all’inizio sembrava difficile diventi facile. È lo stesso concetto di quando si impara a parlare: all’inizio è difficile esprimersi, ma quanto più cresce il numero di vocaboli che si imparano, tanto più facile diventa il tutto.
Lo stesso vale per uno strumento: quando si risolvono i problemi di tecnica, diviene più semplice esprimersi suonando; e si riesce a ottenere anche maggiore precisione e controllo sulla chitarra, evitando sforzi e suonando rilassati.
Usi degli effetti e quali?
Sì, il riverbero, a volte. Ma quando ero giovane ne usavo molti: delay, chorus, flanger, pitch shifter, octaver, loop… L’ho fatto per quindici anni, e quando andavo in tour avevo sempre con me un fonico: questo comportava uno spreco di tempo e di energie per fare il soundcheck.
Una volta mi trovavo in America per un concerto, e mi resi conto che quel suono così manipolato alla fine non mi piaceva; anche perché stava limitando tutto il bello del suonare la chitarra.
Così mi dissi: «Oggi suono senza; e se vedo che non funziona, vuol dire che ho fallito come chitarrista e mi ritiro.»
Ero arrivato a quel punto! Sentivo di essermi allontanato troppo dalla vera essenza dello strumento. Così decisi di fare un esperimento; partii solo con la mia chitarra: niente microfoni, niente jack, niente. «Se hanno un sound system lo uso, se non lo hanno suonerò in acustico: deve funzionare così!»
Fu un tour molto interessante e capii diverse cose. Anzitutto capii che quello che sentivo nella mia testa non era quello che sentivano gli altri: il pubblico si aspettava di sentire una chitarra, e la chitarra è uno strumento delicato.
Non si aspettavano Eric Clapton e la sua chitarra elettrica, così dovetti accettare di suonare in modo molto delicato, ‘piccolo’.
Prima ero abituato ad avere un suono molto potente, e per il mio ego era fantastico. Ma quella volta dovetti riabituarmi al contrario, e fu un duro lavoro. Dovetti riavvicinarmi alla chitarra per riscoprirne l’universo che avevo ormai perso di vista.
A furia di usare effetti si diventa pigri: il suono sembra bellissimo, con il riverbero e tutto il resto.
Non c’è più bisogno che tu ti impegni a scoprire tutte quelle altre cose che puoi fare con lo strumento, perché hai già tanto in digitale. Non hai più bisogno di stare attento e ascoltare ogni singolo suono che esce dalla tua chitarra…
Dopo quel tour, tornai a casa e incisi Intuite: un album interamente acustico. Mi resi conto che dovevo riconsiderare tutto il mio modo di pensare precedente.
L’intervista completa realizzata da Corrado Pusceddu è pubblicata sul numero 09 di Chitarra Acustica.
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