È uno dei più apprezzati batteristi italiani, nato e cresciuto circondato dalla musica, in particolare da quel jazz tradizionale che suo padre Gigi (contrabbassista) e suo zio Carlo (banjo e sax baritono) suonavano con la storica Milan College Jazz Band. Leader del We Kids Trio, membro stabile del Devil Quartet di Paolo Fresu, collaboratore fisso di musicisti del calibro di Dado Moroni e Franco Ambrosetti, nonché di Massimo Ranieri in versione jazzistica nel gruppo Malìa, Bagnoli ha di recente pubblicato un album dedicato ad Arthur Rimbaud, poeta maledetto che ha contribuito a rivoluzionare la letteratura mondiale nel XIX secolo.
Un album molto particolare, di grande intensità e bellezza, interamente composto e suonato dal musicista milanese, che per l’occasione si è cimentato anche con pianoforte, vibrafono, contrabbasso, varie percussioni, elettronica, oggetti d’uso comune utilizzati in chiave effettistica… Un disco solista nel senso più completo del termine, composto da una collezione di bozzetti musicali che vanno un po’ a ripercorrere la vicenda letteraria e quella umana, non meno straordinaria, di un geniale artista dell’Ottocento.
La pubblicazione di Rimbaud ci ha offerto il pretesto per rivolgere qualche domanda a un disponibilissimo Stefano Bagnoli, le cui risposte, tutt’altro che banali e scontate, ben riflettono il pensiero di un artista nel pieno della maturità musicale e personale.
Ciao Stefano, benvenuto su Music Off. Volevo chiederti se è nato prima l’uovo o la gallina, ovvero: 1) avevi già in mente un lavoro del genere – una serie di ‘bozzetti musicali’ in cui suoni tutti gli strumenti in prima persona – e il personaggio Rimbaud ti ha offerto ‘la scusa’ per realizzarlo; oppure 2) se l’ispirazione per dar vita a un album simile ti è venuta solo dopo aver approfondito la conoscenza di questo straordinario artista.
È nata prima la gallina… Ovvero, è Rimbaud che ha ispirato la musica che ho scritto; una sfida con me stesso, cogliendo l’occasione di concepire un lavoro discografico in un lasso di tempo molto lungo; ho avuto le idee chiare su come progettare la musica pur con delle incognite che ho annullato nel tempo, stratificando suoni e colori, tutto work in progress attraverso il fascino dei racconti relativi a quel breve periodo in cui il giovane poeta stravolse la letteratura mondiale.
Perché proprio Arthur Rimbaud?
Vidi un film stupendo, Poeti dall’Inferno, con Leonardo Di Caprio nel ruolo di Rimbaud e David Thwelis nel ruolo di Paul Verlaine. Successivamente mi misi a leggere l’opera di Rimbaud nella sua totalità, oltre a tutti i saggi scritti su di lui. La musica è stata una sequenza di emozioni che portassero a compimento una sorta di colonna sonora, una suite dedicata ad alcuni momenti salienti della vita di Rimbaud. Per questo il CD è corredato da un booklet esplicativo di tutti i brani, che andrebbero ascoltati in sequenza per avere un’idea chiara della musica. Poi ci sono anche due brani ‘cantabili’ molto easy, che potrebbero diventare i tormentoni estivi (magari, eheheheh!).
I tuoi precedenti lavori solisti – penso soprattutto a quelli del We Kids Trio – sono stati pubblicati da altre etichette discografiche. È un caso che questo album – interamente concepito, composto e suonato da te – sia stato realizzato dalla Tùk Music, etichetta di Paolo Fresu, peraltro tuo leader nel Devil Quartet?
A parte l’ultimo disco appena registrato per la Abeat di Mario Caccia, tutti i precedenti dischi del We Kids Trio (oggi rinnovato con altri due ragazzi dal talento incredibile: Giuseppe Vitale al pianoforte e Stefano Zambon al contrabbasso) sono stati prodotti dalla Ultrasound Records di Stefano Bertolotti. Anche Rimbaud è stato registrato nello studio di Bertolotti. Tuttavia successe che, ultimato il mastering, feci ascoltare il lavoro, senza nessun obiettivo particolare, a Paolo, il quale mi chiese se poteva produrlo lui. Parlai quindi con Bertolotti il quale, da persona estremamente gentile e disponibile, ci mise un secondo a dirmi che non dovevo perdere l’occasione di passare il disco alla Tuk Music.
Qual è – e qual è stato negli anni – il tuo rapporto con strumenti come il pianoforte e il vibrafono? Li hai ‘rispolverati’ per l’occasione o li hai sempre praticati? E il contrabbasso?
Sì, li ho rispolverati appositamente per questo progetto. Non ho la presunzione di sentirmi multistrumentista, tuttavia ho sperimentato le mie possibilità extra batteristiche, seppur superficiali, grazie all’istinto e a un retaggio di studi classici grazie ai quali ho potuto concretizzare le idee compositive di questo disco sfruttando quegli strumenti armonici che ho ‘bazzicato’ in conservatorio, come il piano e il vibrafono. Il contrabbasso, inoltre, è lo strumento che adoro in assoluto, strumento che ho sotto mano da sempre, avendo avuto il papà contrabbassista.
I suoni degli strumenti che si ascoltano in Rimbaud sono spesso ‘trattati’, artefatti, modificati meccanicamente. È stato così anche per i suoni della batteria?
È fantastico sfruttare la tecnologia per assecondare le idee, pertanto ho usato molta elettronica oltre a miscelare rumori di oggetti casalinghi come chiavi, pentole o suoni della vita all’aria aperta come le campane di una chiesa, i passi sulla ghiaia o le onde del mare. Oltre a ciò, con le tastiere, ho modulato sonorità più o meno classiche come archi, Rhodes, chitarra acustica e varie percussioni, lasciandole realistiche piuttosto che rielaborate con sonorità artificiali. La batteria non è esclusa da questo processo di trasformazione sonora, pertanto in certi brani è totalmente acustica mentre in altri è ‘tagliuzzata’ in brevi cellule ritmiche per creare dei loop piuttosto che resa volutamente artificiale, affinchè si inserisse nel contesto dinamico generale.
Mi ha molto colpito il suono cupo dei tamburi sul brano “Rimbaud”, che creano nell’ultima parte del brano una base ossessiva, squarciata da rari accenti brevi e asciutti, marcati dai piatti, o per meglio dire da corti suoni ‘metallici’. Anche su “Due spari” mi sembra che tu abbia evitato il ricorso alle sonorità più tradizionali dei piatti, in favore – presumo – di stack o combinazioni di piatti con meno alone…
Esatto: nel brano “Rimbaud” i tamburi di cui parli sono la sovrapposizione di due timpani da 14″ e da 16″. In “Due Spari” la batteria è acustica con degli interventi sonori elettronici mentre il piatto che si ascolta sono in realtà due sovrapposti, un ride e un crash, per ricreare un sound ‘rotto’ e molto definito.
Ovviamente su un tuo disco non potevi non utilizzare le tanto amate spazzole. Su “Io è un altro” in particolare si ascoltano due suoni (e due assolo) sovrapposti con le spazzole, uno più ‘tradizionale’, l’altro che sembrerebbe prodotto da battenti tipo blastick. Mi sbaglio?
In realtà sono sempre le spazzole tradizionali suonate in due tracce separate che combattono tra loro: una traccia è suonata da uno snare da 10″ mentre l’altra da un djembè.
Hai adottato qualche accorgimento particolare per la ripresa audio delle parti di batteria?
Ho sfruttato una microfonatura standard, usata da noi jazzisti anche nel live, tuttavia con un paio di rinforzi: oltre ai due panoramici per piatti e tom, due microfoni sullo snare (sopra e sotto) e due sulla cassa (davanti e dietro). Approfitto per aprire una parentesi: nel live come in studio preferisco (in realtà… lo esigo!) una ripresa concentrata sugli over che definiscano principalmente il suono dei piatti, ma contemporaneamente leghino il sound di tom e timpano in un’unica soluzione acustica.
La batteria nel jazz, almeno per come la vedo io, deve suonare come un accordo di pianoforte nel quale tutte le note richieste si fondino l’una nell’altra, pur perdendone talvolta la definizione. Non mi interessa avere microfoni su tom e timpano poichè la gestione sonora del comping (l’accompagnamento, NdA) richiede molte sfaccettature che devono integrarsi tra piatti e tamburi. La definizione del suono della batteria deve essere plasmata da numerose dinamiche che devo poter gestire amalgamando e ‘sporcando’ il sound complessivo.
Che strumentazione hai usato per la registrazione e quali utilizzi di solito?
Sono endorser Tama da quasi vent’anni e da qualche tempo, in accordo con la Mogar – che ha accettato non senza stupore la mia richiesta – suono esclusivamente strumenti economici (Imperial Star e Super Star), con l’intento prioritario di promuovere strumenti che possano essere acquistati da chiunque, sopratutto da quei giovani (ma non solo) che hanno possibilità economiche ristrette. Metto in atto la mia filosofia di incentivare i giovani, di spronarli, di assecondarli, di supportarli; lo faccio da anni con il mio trio We Kids e non da meno voglio farlo promuovendo batterie di grandissima qualità a basso costo.
Forse qualche collega mi odierà o penserà che sono snob, ma credo fermamente che noi endorser, che abbiamo a disposizione i migliori e più costosi strumenti in commercio, non possiamo evitare di incentivare l’utilizzo di batterie che suonino bene pur costando poco. Credo sia un dovere e una forma di rispetto verso chi ci segue, chi ci ammira e chi da noi vuole poter considerare che talvolta non serve fare un mutuo per comprarsi una batteria.
Il suono lo creiamo noi e talvolta la sfida di plasmare il proprio sound su uno strumento economico sprona a sperimentare le proprie capacità creative, tecniche e di ricerca. Sono cosciente che ogni stile abbia esigenze diverse: ad esempio un batterista pop ha la necessità di suonare strumenti che garantiscano precise e specifiche sonorità create solo da certe essenze, certe misure, certi materiali…
Viceversa noi jazzisti siamo facilitati da un sound meno specifico e ortodosso; tuttavia penso drasticamente che i tamburi siano pezzi di legno e metallo con delle pelli sopra: il suono lo creano il nostro cervello e le nostre mani!
Ineccepibile. E quanto ai piatti?
Per quanto riguarda i piatti sono endorser Zildjian da altrettanti anni e, al contrario del mio pensiero riguardo i tamburi, sui piatti non posso fare a meno di modelli ‘blasonati’ e costosi! Non pongo particolare attenzione al piatto cosiddetto ‘jazz’, anzi… Non mi interessa proprio l’etichetta stilistica, dato che uso i piatti che mi piacciono rendendoli ‘miei’ anche se nascono come modelli lontani dalla mia musica.
Amo i Kerope tanto quanto i K Custom Left Ride Side piuttosto che i Costantinople Bounce.
Ci sarà modo di ascoltare dal vivo il materiale contenuto in Rimbaud? E se sì, in che contesto pensi possa essere collocato? Un festival jazz, una rassegna di musica contemporanea…
Abbiamo già debuttato con Rimbaud Live in trio con i miei Kids Vitale e Zambon, alla Cantina Bentivoglio di Bologna. È stato molto impegnativo, poichè abbiamo dovuto rielaborare il repertorio modificando alcuni parametri pur usando comunque l’elettronica: Vitale oltre al pianoforte suona una tastiera collegata al computer mentre Zambon usa una pedaliera per creare dei loop piuttosto che sonorità di vario tipo. Io invece suono il drumset classico. Spero che con We Kids Trio si possa mantenere stabile il doppio repertorio di jazz classico (con vecchi standard solitamente sfruttati dalle dixieland bands affiancati da brani nostri) e quello più particolare di Rimbaud.
Come collocazione artistica direi che sia i festival jazz sia quelli di musica contemporanea vadano benissimo poichè il germe jazzistico è sempre presente nonostante la sperimentazione.
Da un punto di vista meramente batteristico, c’è qualcosa o qualcuno oggi che trovi particolarmente interessante o che ti incuriosisce?
Ora ti darò una risposta provocatoria e antipatica: adoro una gran quantità di batteristi (e non solo jazz) di tutte le generazioni, tuttavia la batteria e i batteristi oggi mi annoiano un pò tutti tranne Steve Gadd! Detto questo ammiro molti batteristi della nuova leva come ad esempio Nicola Angelucci con il quale abbiamo creato sui social una faida terrificante costellata di offese e insulti pesantissimi supportati da orde di fan che ci spronano all’odio estremo….ehehehehe…..molto divertente!
Trovi ancora il tempo e le motivazioni per studiare lo strumento?
Non studio da secoli ( “…e si sente“, diranno in tanti!), ma penso fermamente che la batteria sia la mia vita professionale e artistica seppur con un occhio di riguardo verso le sperimentazioni che potrò permettermi soprattutto rivolte alla composizione. Un mio brano ad esempio, “Ballata per Rimbaud”, registrato nel nuovo CD Carpe Diem del Devil Quartet di Paolo Fresu, ha raggiunto in poco tempo (marzo 2018) centomila ascolti su Spotify. Non mi cambia la vita, ma è senza dubbio una bella soddisfazione.
In quali altri progetti sei impegnato attualmente, sia come leader sia come sideman?
Da anni la mia vita musicale è pienamente appagata da collaborazioni di alto livello con Paolo Fresu, Paolino Dalla Porta, Bebo Ferra, Franco Ambrosetti, Dado Moroni, Massimo Ranieri (nel suo gruppo jazzistico “Malìa” inventato e prodotto da Mauro Pagani con Enrico Rava, Stefano di Battista, Rita Marcotulli, Riccardo Fioravanti) e Paolo Jannacci, oltre ovviamente al mio trio che adoro e con il quale vorrei suonare tutti i giorni.
Dal punto di vista didattico, invece, in quali strutture stai insegnando?
Amo la didattica ed è un altro punto forte della mia quotidianità. Insegno privatamente oltre che al conservatorio di Piacenza. Ho in attivo una serie di metodi didattici che sfociano nel mega corso in vendita in download attraverso la produzione di Ultrasound Records di Stefano Bertolotti, che comprende dodici libri, tre ore video sulla storia della batteria jazz tradizionale, un play along di quarantadue tracce oltre a quattro libri sulle spazzole con relativi video.
In ultimo ho appena ultimato un altro dvd sulle spazzole in compagnia dei miei Kids, che fanno da sezione ritmica a me e a quattro miei ex allievi che con le spazzole sono molto forti: Alessandro Rossi, Davide Bussoleni, Enrico Smiderle e Mauro Mengotto. Più invecchio più sento l’esigenza di investire tempo e denaro nei giovani, presentandoli al pubblico come il futuro del nostro strumento legato al jazz; inoltre la soddisfazione di averli intorno come figli è una gioia immensa.
Il tuo rapporto con musicisti più giovani ricorda quello di alcuni grandi mentori del passato, jazzisti che, come Art Blakey per restare al mondo della batteria, facevano crescere sotto la loro ala protrettrice alcuni dei più brillanti giovani talenti…
Tempo fa pensavo di dedicare le mie energie imprenditoriali per produrre dvd in compagnia dei miei colleghi famosi e acclamati. Poi ho realizzato che sarei stato più appagato nel presentare le nuove leve dalle quali imparo ogni giorno e trasmetto loro la gioia di suonare e condividere assieme un percorso di vita avulso dall’esibizione di quell’ego talvolta patetico dell’adulto che approfitta dei giovani per sentirsi il più forte.
Ho iniziato a suonare quattordicenne con musicisti già maturi e con grande esperienza alle spalle, ho appreso da loro l’impegno dell’essere musicista e uomo nella vita di tutti i giorni oltre a saper suonare, e ho anche fatto tesoro del mio essere giovane e ingenuo subendo l’influenza negativa di alcuni adulti che mi trattavano talvolta come talento da esibire o dovendo accettare mio malgrado trattamenti vitali, come quello economico, infimi e deludenti.
Perciò da sempre, forse per reazione, i ragazzi che suonano con me vengono trattati alla pari e con loro divido tutto in parti uguali, se non addirittura, come è successo anche recentemente, escludendomi dalla divisione dei pani e dei pesci qualora un imprevisto mi obblighi ad accettare tutte le responsabilità da leader e persona adulta, facendomene carico in tutti i sensi.
Rimbaud stravolse la letteratura a sedici anni; i miei Kids, nella prima edizione del trio con Francesco Patti e Giuseppe Cucchiara, avevano sedici anni ciascuno e i Kids attuali non ne hanno più di venti. Mi mantengo mentalmente attivo e giovane grazie a loro, pur con la maturità richiesta affinchè possa essere per loro una sorta di padre e di riferimento musicale e umano. La musica è anche questo, non solo suonare, ed è meraviglioso.
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