Nel 1988 i Toto sono all’apice e Steve Lukather è uno degli idoli dei chitarristi di tutto il mondo. Nell’intervista le sue basi e qualche priorità per tutti.
The Seventh One, senza troppa fantasia, è il titolo del settimo album della band americana ed è destinato a essere uno dei più venduti, pur non eguagliando l’enorme successo del multi-platinato Toto IV, trainato da hit come “Rosanna” e “Africa”.
Lukather ha ormai messo quasi completamente da parte la carriera di sessionman, il ruolo che gli ha permesso, giovanissimo, di registrare centinaia di interventi nei lavori degli artisti più noti, fra cui anche il Michael Jackson di Thriller. L’attività live dei Toto è ormai tale da assorbire quasi tutto il suo tempo ed è appunto a Roma quando Mauro Salvatori riesce a intervistarlo per il numero 26 di Chitarre.
La sorpresa è quella di trovarsi davanti un musicista disponibile, spontaneo, entusiasta e – soprattutto – privo di arroganza. Per essere uno dei nomi citati fra i più grandi chitarristi di tutti i tempi ha un’opinione di sé molto contenuta: …Sono solo un ragazzo fortunato. Troppo fortunato… nulla più.
L’occasione è buona per farsi raccontare qualche dettaglio della sua storia artistica…
So che hai cominciato lo studio della chitarra con Jimmy Wyble… (grande sorriso, e subito gli si illuminano gli occhi).
Sì. È stato lui ad aprirmi nuovi orizzonti; fino allora ero soltanto uno dei tanti principianti che cercava di rifare gli assolo di Jimi Hendrix, di Jeff Beck. I miei amici mi chiamavano Mr.Pentatonic, invece Jimmy si preoccupò di cominciare subito a farmi studiare le principali progressioni del bebop, nuove scale, i vari modi e armonizzazioni, mi convinse ad ascoltare nuovi generi musicali, Wes Montgomery, Joe Pass e, ancora di più, Larry Carlton, che da allora divenne il massimo per me.
Ed è grazie a Jimmy che poi hai studiato, nota per nota, l’assolo di Larry Carlton su «Kid Charlemagne» (dall’album The Royal Scam degli Steely Dan)?
Esattamente. Lo potrei definire l’assolo che ha cambiato tutta la mia vita, la mia visione della musica. Lì c’è tutto: fraseggio, gusto, liricità, tecnica. Larry sembra un vero bluesy bebop player.
E poi cosa è successo, come hai cominciato la tua carriera di professionista?
Ho avuto la fortuna di conoscere Carlton di persona, poi, tramite lui, Jay Graydon (tra i più noti chitarristi e produttori di Los Angeles), che dopo avermi sentito suonare nei club mi ha aiutato a trovare i primi lavori come turnista.
E qual è stato il tuo primo ingaggio importante come professionista?
Boz Scaggs, nel 1977, nel suo tour chiamato Silk Degrees. Ed è stato proprio lì, visto che nel gruppo c’erano anche i fratelli Porcaro e David Paich, che abbiamo cominciato a pensare a una prima formazione dei Toto. Per la verità devo dire che ci conoscevamo già dai tempi della scuola e avevamo già suonato insieme. Poi, da allora, ho partecipato a moltissime session e incisioni…
Tra queste Randy Newman, Barbra Streisand, Alice Cooper, Diana Ross, Earth Wind & Fire, Michael Jackson, Elton John, Joni Mitchell, Manhattan Transfer, George Benson, Lee Ritenour, e tantissimi altri. In verità sono stato fortunato, troppo fortunato!
Beh, recentemente sei stato ancora più fortunato, tanto da suonare con Paul McCartney nel suo album Give My Regards To Broad Street. Com’è andata?
Incredibile. Wow! Che trip, ragazzi! Mio padre da ragazzino mi comprava tutti i dischi dei Beatles. Li adoravo. Vent’anni più tardi ritrovarsi in sala con questo incredibile musicista che ti dice Ok, bell’assolo, e ti batte le mani sulle spalle come se ti conoscesse da sempre… Paul è di una simpatia incredibile, sempre pronto a dire Ok, vai avanti così, ed è veramente un musicista coi fiocchi!
Sono sicuro che ai nostri lettori piacerebbe sapere che musica ascolti, quali sono i tuoi chitarristi preferiti…
Mah, in verità dipende molto dall’umore. Mi piace Van Halen e, a parte il fatto che è un mio grande amico, amo lo spirito della sua band, le canzoni, come suona le tastiere; è un vero musicista, e poi naturalmente con la chitarra può suonare del buon rock, del buon blues.
Tutto sommato si può dire che abbiamo la stessa formazione. Anche Steve Vai è ottimo. Ma soprattutto io amo il vero rock, Chuck Berry, i Rolling Stones, quella è vera energia rock, un grande senso del ritmo unito a una buona melodia.
Ok, mi sta bene… grande tecnica, molte scale, ma neanche tanto nuove alla fin fine.
Come costruisci i tuoi assolo?
Non ho una regola precisa, a volte mi ispiro molto alla melodia, allo spirito della canzone, a volte (molto spesso) mi è capitato durante dei tour di trovarmi a provare un’idea che invece ai produttori piaceva, e che consideravano un bell’assolo mentre io lo avrei cancellato subito. Altre volte ho inciso tre o quattro assolo, e in quel caso i produttori hanno ricucito mischiando le frasi che gli piacevano di più.
Fra i numerosi album di successo cui hai partecipato, probabilmente il più venduto è Thriller di Michael Jackson, prodotto dal grande Quincy Jones. Di lui si dice che scriva arrangiamenti complicatissimi e che pretenda molto dai musicisti. Com’è andata? C’è stata qualche tensione?
Niente affatto; anzi, molta rilassatezza e una grande gioia da parte di tutti. Quincy arrivava, ci suonava delle parti al piano… personalmente ho avuto molto spazio per alcune mie iniziative ritmiche.
Tu che sei nato, vivi e lavori a Los Angeles, cosa ne pensi di scuole come il G.I.T.? Specie rapportandole ai tempi in cui hai cominciato a suonare seriamente…
Mah… ti dirò, quando sono nate (e parlo proprio degli inizi) erano veramente buone, soprattutto nuove come concezione dell’insegnamento, ma oggi sono solo scuole per principianti che vogliono esporsi, oltre che un buon business per chi le gestisce…
Quindi, credi che non valga la pena di arrivare fin laggiù?
No, assolutamente, specie ai nostri giorni. lo credo che se vuoi veramente progredire devi avere un buon insegnante che ti segua individualmente, se possibile eliminando i tuoi difetti, valorizzando il tuo talento. Il difetto di queste scuole è che tutti questi ragazzi vanno lì per suonare tutti insieme solo scale, al massimo della velocità, ma non con l’intento di progredire, solo per esporsi e fare a gara a chi è più veloce, per mettersi in mostra pensando che poi una volta usciti da lì saranno dei veri chitarristi. Ma non è così, in realtà…
Mi dispiace, amici mei, vi sto dicendo la verità, non sarò certo io a raccontarvi delle stronzate. Personalmente ho fatto un paio di dimostrazioni al G.I.T., ma è stato solo per fare un favore personale al padre di Jeff Porcaro, Joe Porcaro, che insegna la batteria lì al D.I.T. (Drums Institute Teaching). Se uno di questi ragazzi provasse a studiare un assolo di Allan Holdsworth smetterebbe di suonare… così vorrei dire a questi studenti: che ci fate con tutta questa velocità? La velocità non è tutto.
Quindi, che consiglio pratico daresti a chi si appresta a suonare la chitarra ai giorni nostri?
Prima di tutto un buon insegnante, e poi ascoltare tutti i tipi di musica, senza limiti, educare l’orecchio a ogni genere e figurazione ritmica. E poi soprattutto tornare alle origini, al ritmo del rock. Non serve a niente suonare «Eruption» di Van Halen se poi ti ritrovi con un bassista e un batterista e non sei capace di mettere due accordi in fila dall’inizio alla fine del brano… Io dico che prima di studiare scale veloci è meglio assimilare lo spirito del rock, Chuck Berry, Rolling Stones, perché il rock è prima di tutto ritmo.
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