Uno dei più noti chitarristi/polistrumentisti acustici canadesi intervistato nel corso del recente tour italiano accanto a Beppe Gambetta.
Polistrumentista e virtuoso in grado di suonare la chitarra fingerstyle e flatpicking, il fiddle, il mandolino e il banjo ad altissimi livelli, J.P. Cormier ha una visione della musica circolare, in cui una tecnica per violino può essere trasposta sulla chitarra.
Dopo aver frequentato i palchi di tanti festival in giro per il mondo, nell’estate del 2019 è finalmente approdato in Italia con una fortunatissima tournée, che lo ha visto protagonista insieme a Beppe Gambetta in vari concerti.
Dopo diciotto dischi, tanti premi e collaborazioni e un progetto didattico, quello che stupisce e affascina di lui è la voglia di imparare, condividere i suoi talenti, lasciarsi contaminare dalla musica e dalle esperienze e arricchire il suo repertorio, senza limiti e mantenendo la mente ben aperta.
Grazie a una visione molto personale della didattica ha creato il suo Master Music Method in cui condivide segreti e trucchi scoperti nelle registrazioni dei maestri, i vari aspetti della tecnica chitarristica o anche i modi per allenare l’orecchio
Vieni dall’Est del Canada. Ci puoi parlare della scena musicale di quelle zone?
Vengo dall’Isola del Capo Bretone nella Nuova Scozia. È stata colonizzata nel Settecento da un gruppo di scozzesi e anche da francesi, la maggior parte provenienti dalla Normandia. Il repertorio principale di musica che abbiamo viene dalla tradizione scozzese del fiddle e della cornamusa, e da forme antiche di danze tradizionali.
A Capo Bretone ci sono ancora oggi molti violinisti che suonano antichi brani dei secoli passati. Ci sono anche bravissimi cantastorie, un gran numero di cantanti tradizionali e cantautori.
Non possiamo dimenticare da dove veniamo, e questo è l’errore che molti giovani musicisti fanno: iniziano ad ascoltare solo gli artisti moderni. È successo anche a tanti violinisti di Capo Bretone, che ascoltavano solo musicisti degli anni ’90. In questo modo imparavano soltanto una parte delle tecniche, perché non andavano abbastanza indietro nel tempo per avere una visione completa.
Addirittura non utilizzavano più alcune tonalità particolari e difficili, come Si bemolle, Mi bemolle, Mi e Sol minore, Do minore, perché non le avevano ascoltate prima.
Succede la stessa cosa anche ai giovani chitarristi. Pensano che musicisti come Bryan Sutton, Cody Kilby, Billy Strings siano i migliori del mondo, ma non è così: c’era un’intera generazione prima di loro, e loro si appoggiano letteralmente sulle spalle di quei fantastici artisti della generazione precedente.
Quello che dovrebbero fare è tornare indietro e ascoltare grandi musicisti come Merle Travis, Ronnie Prophet, Joe Maphis, Arthur Smith, Doc Watson, Dan Crary, fino a Tony Rice, che ha poi modernizzato tutto: noi veniamo da lì. Bisogna andare sufficientemente indietro nel tempo per sentire le idee originali. E se non lo fai, perdi delle informazioni fondamentali.
Hai vinto il primo concorso a nove anni e a sedici hai registrato il tuo primo album: come si dovrebbero approcciare i giovani alla professione musicale?
Questo lavoro è molto duro. Bisogna tenere gli occhi ben aperti, perché se non lo fai vieni distrutto. L’unica cosa che posso dire ai giovani che vogliono diventare musicisti professionisti, è che non devono fidarsi di nessuno in questo business. Non è sicuro, alcuni ti aiutano, sono onesti e giusti, ma incontrare gente così è molto raro.
Le persone che potrebbero danneggiarti non lo fanno per cattiveria, ma perché è così che funziona e l’industria musicale lo permette. Il modo migliore per entrare in questo mondo è farlo alle proprie condizioni: non mettersi in affari con manager, etichette, agenti, fino a che non si hanno delle basi solide, un certo numero di fan, un programma di concerti.
Serve registrare un buon album, che di questi tempi è più semplice da realizzare, pubblicarlo su iTunes e sui social network, iniziare a suonare davanti a un pubblico, farlo tantissimo… e spesso gratis. Non si può pensare di guadagnarsi da vivere fin da subito: sono richiesti grandi sacrifici, la gente questo non lo capisce.
Mi guardano adesso, dopo tanti anni vissuti in questo ambiente da professionista, e pensano che sia stato facile, o che io sia stato molto fortunato. Ma sbagliano. E non sono diverso da ogni altro musicista. Ho sacrificato tutto nella vita per fare questo.
Addirittura non sono andato al funerale di mia madre, perché stavo a Nashville ‘illegalmente’: mi era permesso starci solo sei mesi l’anno, e cercavano sempre di rimandarmi in Canada; ma in quel caso non sarei più potuto rientrare. E questo è solo un esempio: ho sacrificato relazioni, denaro, macchine, strumenti, case.
Poi puoi avere fortuna e fare un disco di successo, con un brano che passa in radio: costa però più soldi di quanti ne farai mai, è questa la verità. Quindi devi trovare il tuo equilibrio, lottare e durare più a lungo degli altri, questo è l’obiettivo. È anche fondamentale essere fedeli a sé stessi, non fare qualcosa che non si adatti a quello che sei, perché altrimenti – se anche hai successo – non sarai comunque felice.
È una della ragioni per cui tante persone famose fanno uso di droghe e altre sostanze: in qualche momento della vita hanno venduto una parte di loro stessi e non riescono a sopportarlo.
Succede la stessa cosa coi musicisti. Un altro consiglio che mi sento di dare, forse il più importante, è trattare sempre gli altri con gentilezza e non mandare mai via qualcuno che abbia bisogno di aiuto.
Il resto dell’intervista di Michela Favale su Chitarra Acustica di febbraio 2020.
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