L’artista che negli anni settanta ha regalato un nuovo suono al basso elettrico ci lasciava improvvisamente nel 1987 alla fine di un percorso sconcertante e l’intervista di Gabriel Amato, all’epoca bassista del Banco, lo coglie pochi mesi prima della scomparsa.
Nella foto di Fausto Ristori che apre l’articolo pubblicato sul numero 12 di Chitarre lo sguardo di Jaco, dritto nell’obiettivo, è malinconico.
Non ha l’aria di un uomo contento di quello che fa. Cosa gli è successo dopo il boom iniziale che ne aveva fatto quasi d’incanto un personaggio di punta della musica mondiale?
Gli anni passati nei Weather Report con Zawinul e Shorter, dal 1976 al 1981, lo avevano consacrato velocemente come innovatore, virtuoso e soprattutto musicista dotato di un gusto straordinario nello scegliere la voce giusta del suo strumento.
Il suono che otteneva con il suo Fender Jazz fretless, l’uso sapiente degli armonici diventano un riferimento per tutto il mondo del basso elettrico e le collaborazioni con personaggi come Joni Mitchell o Pat Metheny sono altrettanto scintillanti, punti fermi nella storia musicale del periodo come il suo primo album omonimo del 1976.
Come potesse finire pochi anni dopo letteralmente “sotto i ponti” è difficile da comprendere per chi non abbia sperimentato personalmente i tormenti creati da alcol e droghe sulla base di un disturbo bipolare diagnosticato solo in seguito. D’altronde, è molto lunga la lista di grandi artisti che nel corso del tempo hanno dovuto soccombere al difficile confronto con la propria genialità.
Perdita della creatività, incapacità a gestire i rapporti con gli altri musicisti e a condurre una vita normale sono i risultati tangibili di questa condizione ma nel 1987 Pastorius è di nuovo in tournée con l’allora poco noto Bireli Lagrène, enfant prodige della chitarra manouche spinto dai discografici a cercare un’immagine di virtuoso a 360 gradi.
Negli anni seguenti Lagrène si limiterà a consolidare il suo status di chitarrista di classe nel jazz in generale, ma in quel momento la presenza del bassista americano è utile per attirare l’attenzione generale ed è evidente come la maggior parte del pubblico dei concerti sia lì per Jaco.
Proprio all’inizio dell’intervista Pastorius accenna al vicino trasferimento in Florida. Non sa in quel momento che proprio in Florida, a causa di uno sfortunato scontro con il buttafuori di un locale, poco dopo finirà in coma in ospedale per poi lasciare definitivamente la sua vita travagliata.
Come al solito, rileggere questi articoli ci porta uno squarcio sulla tecnologia dell’epoca attraverso il sofisticato sistema di amplificazione del bassista. Da notare che Pastorius è stato un pioniere nello sfruttare uno dei primi digital delay con possibilità di registrare dei loop in tempo reale, cosa oggi ormai abituale e alla portata di tutti.
Per chi volesse approfondire il personaggio, Jaco è un documentario co-prodotto un paio di anni fa da Robert Trujillo dei Metallica che raccoglie testimonianze di prima mano dei personaggi più noti fra quelli che hanno colorato la carriera di Pastorius e di altri contemporanei che lo riconoscono come influenza fondamentale.
Jaco, dove vivi, attualmente?
A New York, ma sto progettando di trasferirmi in Florida, dove stanno accadendo cose interessanti dal punto di vista jazzistico.
Qual è la tua opinione su Bireli Lagrene?
Vorrei che una cosa fosse chiara: è la sua tournée, non la mia. Io non sto presentando uno spettacolo mio, anche se faccio qualcuno dei miei vecchi brani. Trovo che Bireli sia abbastanza bravo per essere così giovane. Sono certo che potrà ancora migliorare moltissimo. Sai, la casa discografica punta molto su di lui e lo stanno spingendo fin troppo: il fatto che abbiano chiamato me ad accompagnarlo mi sembra sintomatico.
Del resto, ho qualche perplessità su tutta l’operazione, perché non sono del tutto convinto sugli altri musicisti. Però mi pagano per fare il mio lavoro e, lo ripeto, questa non è la mia tournée. Il batterista è proprio scarso. Quello che a me fa più piacere è che sto tornando a star bene, dopo un periodo un po’ negativo. In questa tournée sto facendo, in pratica, tutte le vecchie cose, ma è lo spirito… Sento che mi sta tornando la creatività, capisci?
Parlami del basso che stai usando in questi giorni.
È uno strumento che mi hanno regalato quelli della lbanez. Uno strumento semplice, tastiera fretless in palissandro, quattro corde, due pickup, due controlli di volume e uno di tono. Uno strumento semplice che sto usando con piacere, anche se non lo definirei il mio sogno.
Che tipo di corde usi?
Qui in Italia sto usando le Dogal, che mi piacciono molto, senza contare che costano molto meno delle Rotosound e hanno la stessa durata.
L’amplificazione?
Dunque, sto usando un sistema tri-amplifìcato. Come preamplificatore uso un Gallien&Kruger, con il quale piloto un Peavey, un vecchio Acoustic a transistor e un terzo del quale non ricordo il nome… ma nulla di eclatante, comunque. Uso tre sistemi di altoparlanti: una piccola cassa Electrovoice con un quindici pollici e un piccolo tweeter. La amplifico con il Peavey.
L’ampli Acoustic pilota casse sempre Acoustic, quelle bianche, ed è un sistema che distorce molto bene, ottengo un vero fuzz-tone. Il terzo ampli pilota delle casse Bose, anche loro molto pulite, come le Electrovoice. Collegando tutto insieme riesco ad ottenere un suono pulito e caldo al tempo stesso.
Che sistema di effetti usi?
Sto lavorando molto con materiali Roland. Sto usando i pedali più economici, niente effetti da rack o circuiti fatti apposta per me: sono pedali che puoi trovare in qualunque negozio… Uso un octave-divider, un fuzz-tone, chorus e un piccolo digital delay. Il suono che ne ricavo mi piace davvero molto.
Stai sperimentando il Bass Synth? Ti sei dato da fare col SynthAxe? Insomma, sei interessato alle nuove tecnologie MIDI?
È una cazzata che ho fatto dieci, quindici anni fa: ora non mi interessa più. Non me ne importa gran che delle nuove tecnologie e di fare rumori strabilianti col basso. Mi piace il suono vero dello strumento, e semmai tento di usare al meglio gli effetti. Per esempio, uso I’octave-divider per avere un suono più grande quando c’è anche il gruppo, quando faccio cose semplici mentre Bireli suona qualcosa di rock, così ottengo un doppio basso che arrotonda bene il suono generale.
Da americano ad americano, cosa ne pensi dell’Italia?
Tutto il bene possibile, sinceramente. Voglio dire che mi piace molto, anche se è stancante, tutta la gente che viene a trovarmi dopo il concerto e che fa pazzie come se fossi una star del rock. E poi mi stupisce molto la presenza di tanta gente a un concerto jazz: nella maggior parte degli altri paesi l’accoglienza non è tanto calorosa, tanto massiccia. Un ottimo pubblico, quello italiano: ti fa sentire soddisfatto di quello che fai e al tempo stesso ti fa venire voglia di dare ancora di più, ti fa venire voglia d’impegnarti per superare te stesso.
Hai scritto qualcosa di nuovo?
No, non ho ancora scritto nulla di nuovo per me, aspetto la fine della tournée per farlo. Ho dato una mano a Bireli per l’album, abbiamo scritto un po’ di cose insieme e credo che si senta. Ma è una cosa che ho fatto solo per amicizia. Ci tengo molto a far sì che Bireli cresca nella direzione giusta, perché le sue potenzialità sono grandi davvero.
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