È uno di quei pochi individui per i quali è stato coniato il termine “Guitar God”, ma la persona che incontro in una stanza d’albergo è sicuramente umana. Sprizza energia ed entusiasmo per il nuovo progetto assieme al suo partner storico, Robert Plant. Ma non chiamateli Led Zeppelin…
L’album Walking into Clarksdale nel 1998 segna il ritorno all’essenziale dopo la fortunata digressione del progetto No Quarter: Jimmy Page & Robert Plant Unledded, segnata dalla contaminazione con elementi e musicisti nordafricani. Page e Plant hanno ritrovato la voglia di lavorare assieme dopo lo sbandamento seguito alla morte di John Bonham e le reciproche avventure e “tradimenti”.
Una delle coppie più creative del rock è di nuovo in contatto con la creatività e soprattutto ha voglia di salire sul palco: il frutto è un disco grezzo, immediato, in cui la produzione di Steve Albini ha valorizzato grandi suoni di chitarra immersi in un ambiente essenziale senza fronzoli. Per quanto Page ci tenga a separare il nuovo lavoro dal recente periodo Unledded, gli elementi etnici affiorano qua e là fra assolo taglienti e ballate intriganti. Non è un capolavoro all’altezza degli album prodotti vent’anni prima ma la personalità dei due artisti è ben presente.
Archiviati gli anni ottanta con la deludente esibizione del Live Aid e la festa di anniversario di Atlantic Records al Madison Square Garden, Page e Plant sfruttano il momento positivo per proiettarsi in avanti.
John Paul Jones, totalmente ignorato nei recenti progetti, non nutre sentimenti molto cordiali verso i due e i fan degli Zeppelin dovranno aspettare fino al 2007 per la vera reunion della band e un intero concerto alla O2 Arena con Jason Bonham alla batteria.
Incontriamo Page in un lussuoso hotel di Montecarlo mentre un folto numero di giornalisti assedia Robert Plant preoccupato per un fastidioso mal d’orecchio. Sono reduci dall’esibizione al Festival di Sanremo per la promozione del nuovo album, un playback finito con una sfumata prematura dell’audio che lascia il povero Plant nel mezzo di uno dei suoi epici roteare dell’asta.
Il chitarrista inglese è di buon umore e lo è ancor di più quando capisce che deve parlare di chitarra. L’argomento Sanremo serve a rompere il ghiaccio…
…è una situazione veramente bizzarra, Jeff Beck, che è un mio buon amico ha suonato li con gli Yardbirds prima che io mi unissi alla band…
Ho sentito raccontare un paio di aneddoti divertenti in proposito…
Già, me lo posso immaginare. Specialmente con il manager di allora, Giorgio Gomelski, che era veramente incredibile, un tipo straordinario. Era russo, e a quei tempi non avevi modo di conoscere molti russi in Inghilterra (ride)! Aveva una gran fantasia, ma con gli affari era terribile. Comunque, posso immaginare che ci siano delle storie su quel periodo, e dopo l’intervista mi piacerebbe ascoltarle. Anche Robert Plant era già venuto a Sanremo, quando ha fatto “Trees” o qualunque fosse il titolo esatto… “Palms”, forse… (ridacchia). A quanto pare hanno fatto partire il nastro della base senza preoccuparsi di chi era sul palco e i musicisti si sono dovuti precipitare a prendere gli strumenti. La cosa era…. beh, abbastanza organizzata ma in maniera un po’ folle all’apparenza.
Stavi per dire “all’italiana”?
Ma a me piace la gente latina! L’unica cosa che non mi è andata del tutto giù – voglio essere onesto con te – è stato il fatto di suonare in playback, anche perché ora siamo in grado di suonare quel pezzo meglio della versione sul disco.
Lo so. Non vogliono correre rischi in queste occasioni…
…e posso anche capire il perché. Tutto sul filo del rasoio, no? Certo, non vogliono correre rischi. Ma il pubblico è assai particolare!
Non esattamente quello che vi trovate davanti nei concerti.
Già, ma in prima fila c’era una donna bellissima… era straordinaria, veramente straordinaria (sottolinea abbondantemente il concetto con il tono della voce)… È stato bello proiettare la mia musica verso di lei (ridacchia). Probabilmente una modella.
WALKING INTO CLARKSDALE
Il singolo che avete presentato, “Most High”, era particolarmente inusuale musicalmente per un posto come Sanremo, ma è interessante, direi, proprio come scelta per rappresentare il disco…
Noi facciamo un disco, lo diamo alla casa discografica perché lo venda e loro scelgono il singolo che ritengono più adatto allo scopo. Credo che la scelta, in questo senso, sia stata la migliore. D’altronde l’unico pezzo che non potesse far pensare a un seguito alla nostra “stravaganza egiziana” (il disco precedente, No Quarter – Jimmy Page and Robert Plant Unledded, con relativo tour) era questo, l’unico privo di sapore musicale orientale, mentre il resto dell’album… È un album molto onesto, costruito sull’immediatezza e la performance, assolutamente non troppo “prodotto”, tutto il materiale può essere eseguito dal vivo senza problemi.
Direi che questo viene fuori molto chiaramente dall’ascolto.
Già, è questo il punto ed è il bello di questo album. Ora che siamo in tour, possiamo evitare tutti quei musicisti, le orchestre, cosa che andava benissimo all’epoca di No Quarter; sono molto orgoglioso di quanto abbiamo fatto con gli egiziani, ma ora ho la libertà di muovermi e di fare assoli quando mi pare, perché non c’è il rischio di mandare fuori tempo l’orchestra! In quel tour avevamo con noi un musicista che suonava la ghironda in “Gallows Pole” e poi passava alla concertina. Era molto bello avere questi strumenti sul palco, ma ora abbiamo deciso di limitarci a un tastierista che aggiunge quei pochi colori quando è necessario.
E GLI ZEPPELIN?
Molta gente è sempre lì ad aspettare un nuovo album…
Non c’è alcun nuovo Zeppelin: qualunque cosa sia, questo disco rappresenta ciò che io e Robert proponiamo di nuovo. E la nostra personalità è forte, ci puoi sentire e riconoscere anche quando suoniamo o cantiamo nei dischi di qualcun altro. Mettici assieme e ottieni una partnership molto interessante anche perché abbiamo fatto tante cose in passato.
Credo che la cosa più importante da considerare sia che i Led Zeppelin sono esistiti dal 1968 fino alla fine degli anni settanta, e ora ci stiamo avvicinando ad un nuovo millennio, il 2000 non è lontano. Ma la cosa più importante è che Robert ed io, l’uno a contatto dell’altro, possiamo ancora fare scintille! Questo è importante, che possiamo ancora scrivere, tirar fuori delle idee, ispirarci reciprocamente. Questo è molto bello. Se l’avessimo perso ora non saremmo qui. Ci sono molti musicisti là fuori in tante band che decisamente hanno perso questa capacità, non ci riescono più, non possono più fare quello che facciamo noi.
D’altrocanto posso capire chi ascolta vecchie registrazioni della fine degli anni sessanta come le BBC Sessions e scopre che erano e sono tuttora cosi toste e moderne…
Beh, ti dirò una cosa. Nei concerti che facciamo ora c’è “How Many More Times”. La facciamo oggi e non la suono diversamente da allora. Quando dico che è la stessa energia… non ne ho tanta come trent’anni fa, ma quella che ho la conservo per usarla sul palco.
Anche in Walking Into Clarksdale ci sono diverse cose che prenderanno in contropiede l’ascoltatore medio, spiazzandolo… non è il classico rock’n’roll…
Qualsiasi cosa… Quando ho scritto “Friends” ad esempio, nel primo album c’era un suonatore di tablas, perché mi interessavo a queste cose da prima degli Zeppelin, ovviamente. World music o comunque la si voglia chiamare. Altri tipi di influenze musicali e quando ho scritto “Friends” era tutto dentro la mia testa per quanto avevo fatto e ascoltato prima. Ero fresco da una grossa litigata con la mia ragazza del periodo, ho preso la chitarra con la voglia di sfogarmi ed ecco che è venuto fuori il pezzo! C’erano queste influenze che all’epoca erano più indiane, di Bombay, ma la vera origine era il litigio, una specie di esplosione., anche se non suona come un’esplosione. Ma è stata quella la forza, l’energia che mi ha fatto prendere la chitarra e suonare.
IL PRODUTTORE GIUSTO, GLI ERRORI, L’ORGOGLIO
Tornando al suono del disco, cosa mi dici della scelta di Steve Albini come produttore?
Abbiamo scelto Albini perché è un fonico che ha prodotto i Nirvana, Bush, varie altre band. Il bello di Albini è che è una specie di combinazione di me e Robert quando lavoriamo assieme: noi cambiamo, cambiamo la musica in continuazione. Probabilmente hai sentito dire di Bob Dylan, non so, poi, se sia vero o no, che continua a modificare le sue canzoni in studio fino all’ultima registrazione.
È quello che facciamo noi con la nostra musica. Steve Albini era qualcuno che, in certe circostanze, se ci lanciavamo in una jam e poi dopo entravamo in regia per ascoltarla, beh, eravamo già sicuri che il suono e l’energia sarebbero stati lì, sul nastro. I fonici di oggi, specialmente quelli che vengono dalle tastiere, non sanno neanche come microfonare correttamente un amplificatore, un sassofono o una batteria!
Albini è un grande esperto nell’arte di sfruttare i microfoni efficacemente, così da non equalizzarli affatto su nastro. Il segnale passa attraverso il banco flat, integro, proprio come dovrebbe essere. Lavora solo sul posizionamento e sulla scelta dei microfoni più adatti. Lui porta con sé i suoi.
Nel disco avete tenuto anche dei punti in cui…
…possono esserci degli errori? Oh, non importa! Non bado a queste cose… non importa se qualcosa suona sbagliato o che altro…
A dispetto del fatto che oggi ci vuole cosi poco con il computer per correggere anche una singolo nota…
Certo.
È un’esplicita scelta, dunque…
Certo! Di presentare le cose cosi come sono. La cosa più importante è che tutti si aspettavano da noi il seguito dell’esperienza con la musica nordafricana e anche un album prodotto in maniera piuttosto pesante con quel tipo di riff heavy che io posso metter giù in qualsiasi momento. È per questo che i Led Zeppelin anche nell’ultimo periodo erano comunque diversi da gruppi come Whitesnake, perché ogni volta tiravamo fuori qualcosa di inaspettato. Comunque sia, la cosa più importante alla fine della giornata è di prendersi la responsabilità del proprio lavoro, qualunque sia stato il risultato: non ho ancora fatto mai niente in tutta la mia carriera di cui poi mi sia dovuto vergognare e questo è bello. Sono orgoglioso, molto orgoglioso di quanto abbiamo fatto ora.
UNO O DUE MANICI?
Che tipo di amplificazione hai usato?
Un Fender ToneMaster per quasi tutte le registrazioni. Ho cambiato un paio di volte per ottenere qualcosa di un po’ più radicale, ma il Fender ToneMaster rimane per me l’ampli più versatile perché suona bene con qualsiasi strumento, sia con una Les Paul che una Stratocaster, mentre un ottimo ampli come il Matchless suona meglio con una Telecaster. Con il Fender puoi usare di tutto.
Hai usato la nuova Les Paul Jimmy Page Signature?
Oh, no. Ho usato quella vera! Perché usare le copie quando puoi sfruttare l’originale? (ride) Quella è la mia chitarra favorita, la mia amante… (allude alla ben nota Les Paul Standard “burst” del ’58 usata con i Led Zeppelin).
C’è il suono di una Fender in alcuni punti…
Sì, ho usato la Telecaster in “Walking Into Clarksdale”.
E la dodici corde che si sente in “Blue Train” e “Please Read The Letter”?
È la Gibson EDS-1275 doppio-manico… (ci pensa su) è buffo, sai, posso rivelarti una cosa? Non avevo mai usato la doppio-manico per registrare. Questa è la prima volta che la uso in studio, è un fatto interessante.
Che acustiche hai usato?
Una Yamaha. Ho sperimentato che le chitarre Yamaha sembrano essere le migliori per me.
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E Ia stessa che usavi all’epoca degli Zeppelin?
Avevo una Yamaha molto, molto buona che mi fu rubata, credo sia stato in un aeroporto. Non ti dico quanto suonasse bene, aveva una voce enorme! E non era neanche uno strumento al top della linea prodotta nei primissimi anni settanta. Oh… (ripensa a ciò che ha appena detto…) ora tutti andranno in cerca di uno strumento di quel periodo, come succede sempre in questi casi, faresti meglio a cancellare questa domanda. Quella che ho usato sul disco è stata fatta per me in Giappone ed è anch’essa molto bella.
“
Non hai usato I’acustica a due manici che ti aveva costruito la Washburn poco tempo fa?
Ho usato l’Ovation doppio-manico. Quelli della Washburn hanno cercato di fare i furbi e a me non piace quel tipo di gente. Prima di loro c’era stata l’Ovation che mi aveva fatto avere questo strumento molto velocemente, prima delle registrazioni di Unledded. A un certo punto, la Washburn ha trovato il modo di sgattaiolare nel camerino in uno dei concerti, non ricordo quale, per chiedermi cosa pensavo del loro strumento. Io ho detto che la parte dodici-corde era molto ben fatta e così via. Allora hanno messo in piedi tutte queste storie sull’Ovation, sul fatto che non ne ero soddisfatto, devi averle lette. È stata un’azione molto meschina dire che avevo lasciato Ovation per i loro prodotti. Veramente meschina.
“
Hai usato effetti nel banco o solo i tuoi pedali?
Solo i miei vecchi pedali, l’overdrive, a parte un Whammy Pedal in “Clarksdale”. Sì, mi piace il Whammy Pedal.
“
Nessuna accordatura aperta?
Non ricordo… Oh, sì, “Most High” è in open tuning di DO. Simile a quella che uso per “Bron-Y-Aur”, ma non proprio identica. L’ho impostata sulla Transperformance Guitar, quella con i pulsanti, sai.
“
Stavo per nominarla…
La chitarra Transperformance è uno stupefacente frutto della tecnologia perché… e quando ne ho sentito parlare all’inizio mi sono sempre rifiutato di crederci, è in grado di accordarsi da sola e ha in memoria 210 tipi di accordature diverse! Ovviamente, non le uso tutte. Se ne selezioni una, standard-tuning, ad esempio, legge la frequenza generata dalle corde e le porta fino al pitch desiderato con un sistema di ingranaggi motorizzati. Vuoi un’accordatura di DO? Premi un bottone e tutto comincia a muoversi per poi bloccarsi automaticamente una volta raggiunta l’accordatura corretta.
“
Lavora dunque cambiando veramente la tensione delle corde…
“
Certo, può tirare la corda fino a quattro semi-toni in alto e allentarla fino a scendere di cinque. O forse è il contrario… comunque funziona perfettamente.
“
Ovviamente continui ad usarla nei concerti.
“
È chiaro. La sto usando proprio ora, nel tour. Ce ne sono altre in giro, ma molto poche. Joe Perry ne ha una… ma sembra che Joe Perry ed io continuiamo ad usare le stesse cose (ridacchia)…
“
E a proposito del Roland VG-8? La tua immagine appare nella loro pubblicità…
“
Il Roland VG-8 è fantastico, ha dei suoni veramente belli e in ogni caso il tracking, la quantità di ritardo tra la nota generata mettendo in vibrazione la corda e quella sintetica “triggerata” per mezzo del pick-up esafonico è molto buono. All’inizio le macchine guitar-synth della Roland suonavano bene, ma il tracking peggiorava progressivamente quanto più si andava verso le corde basse. Questo nuovo prodotto ha alcuni suoni interni notevoli, anche se non l’ho usato nel disco… anzi, ripensandoci, l’ho usato in un pezzo ma è un unico accordo in “Most High”. Solo un accordo quando arriva al bridge, anzi, due accordi, tutto qui. Ma credo sia ottimo per registrare in casa. Tanto di cappello alla Roland, hanno fatto un buon lavoro.
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