Un gustoso mix di Americana, rock e bluegrass in cui Paolo Bonfanti e Martino Coppo danno il meglio di sé con i loro strumenti e una produzione importante.
I due sono amici di vecchia data. Non per modo di dire: musicalmente si frequentano dal 1985, anche se solo nel 2014 hanno dato forma compiuta alla loro collaborazione, con la registrazione di Friend of a Friend, un eccellente disco interamente basato su duetti chitarra e mandolino, infarcito di blues, rock e bluegrass.
A distanza di cinque anni esce il secondo capitolo di questa bella collaborazione, Pracina Stomp, e questa volta i due hanno fatto le cose in grande, con una vera band alle spalle, formata da Nicola Bruno al basso, Stefano Resca alla batteria e Roberto Bongianino alla fisarmonica.
La presenza più importante, come musicista e produttore, è quella di Larry Campbell, per otto anni nella band di Bob Dylan e titolare di tre Grammy come miglior produttore per il lavoro con Levon Helm della Band.
C’è anche sua moglie Teresa Williams, un’ottima cantante cresciuta artisticamente assieme a Patti Scialfa e a Susy Terrell ancor prima che conoscessero Springsteen.
Nell’album ci sono sei brani di Paolo Bonfanti e tre originali di Martino Coppo. Poi c’è “Visa Application Blues”, una composizione di Lowell Levinger, tastierista di Little Steven,. E “Cold Dark Grave” di Silvio Ferretti, il banjoista dei Red Wine, la storica band bluegrass di Martino.
“Passa o Diao” è cantata in dialetto genovese, accolta con entusiasmo in scaletta da un Campbell che ama la cultura tradizionale italiana. Tra gli altri pezzi firmati da Paolo ci sono “I Kinda Like It”, registrata a suo tempo da Fabio Treves, e “Over’s Under” che parla del disastro del ponte Morandi.
Pracina Stomp è stato realizzato con una full immersion in un casale dell’alessandrino, a Pracina, appunto, e nell’album l’intervento di Campbell è stato sostanziale, soprattutto negli arrangiamenti.
Bonfanti, con una carriera trentennale che ne ha fatto uno dei migliori chitarristi italiani, in bilico fra blues elettrico e progetti trasversali, è particolarmente coinvolto e soddisfatto da questo lavoro.
Ne parla come un’esperienza eccezionale, anche rispetto alla passata collaborazione con Steve Berlin dei Los Lobos, che aveva seguito solo a distanza la produzione del live Back Home Alive…
Avevamo Larry Cambell a disposizione per una settimana e ne abbiamo approfittato. Il primo giorno abbiamo fatto un brainstorming sui pezzi, per ragionare su quali utilizzare e come impostarli. Larry è stato molto ‘presente’ in quella fase. Poi abbiamo cominciato a registrare e abbiamo lavorato come dei matti, 12-14 ore al giorno. Ci siamo fatti un bel ‘mazzo’!
Siamo partiti da brani che avevano una struttura di massima, una sorta di canovaccio, e Larry ha dato loro una forma concreta. Lo trovavi in soffitta con il violino con la sordina, che provava e riprovava, mentre noi sotto registravamo.
Il primo disco che abbiamo registrato con Martino, è un lavoro in duo con qualche aggiunta. Questo invece è suonato da una band vera propria: siamo partiti dall’idea di avere la batteria in due pezzi, e alla fine è andata su cinque; stesso discorso per il violino. Il basso è presente quasi in tutto il disco.
Come siete entrati in contatto con Campbell?
È stata un’idea di Beppe Greppi della Felmay, che aveva già pubblicato il nostro disco precedente. Lui è un grande fan di Grateful Dead e dintorni. La cosa assurda è che io Larry Cambell l’avevo visto suonare nel ’79 a Nyon con i Woostock Mountain Review di Happy e Artie Traum, ma non me lo ricordavo…
Quello per Larry è stato un po’ un punto di svolta, che l’ha portato poi a collaborare con Bob Dylan per approdare negli ultimi anni alla corte di Phil Lesh dei Grateful Dead.
Beppe segue questi artisti con molta attenzione e, quando ha visto che Larry sarebbe venuto in Italia per una serie di concerti, non si è fatto sfuggire l’occasione e l’ha coinvolto nel progetto.
Dopo le prime registrazioni abbiamo fatto qualche prova di missaggio e, anche in quella fase, ha dato indicazioni fondamentali. Pochissimi interventi, giusto l’equilibratura dei suoni e interventi minimi di effettistica, senza alcuna compressione.
Ha cercato di riprodurre il suono che aveva ottenuto in sala, levigato e ripulito, ma con pochissimo utilizzo di plug-in esterni. «Perché» diceva «devo sentire il suono della casa, con voi che suonate intorno a me, voglio ‘quella’ vibrazione.»
Nelle registrazioni come avete lavorato?
Fondamentalmente si cercava di fare tutto assieme: quasi tutto in presa diretta, con il click. Bisogna dire che Davide Martini, il fonico, ha fatto miracoli, letteralmente: coperte e piumoni appesi alle travi, non sapeva più cosa fare per isolare i vari ambienti, i cavi che passavano da finestrelle e pertugi vari… È uno che risolve problemi che altri non affronterebbero neanche.
Direi che si sente, comunque, che avete suonato tutti assieme.
Sì, è un genere di disco che andava suonato così. Anche l’ambiente si prestava moltissimo, tutto in pietra e legno, regalava delle sonorità perfette. Anche se, non essendo nato come ‘studio’, ci ha obbligato a qualche adattamento.
Oltre alla promozione di Pracina Stomp, hai altri progetti in ballo?
La prossima meta prefissata è il 15 novembre 2020, data in cui uscirà il mio prossimo disco da solo. Per il momento è l’unica cosa che so, perché sarà il giorno del mio sessantesimo compleanno. Ho la data e poco, pochissimo altro, però è un buon inizio!
Sarà una cosa da pazzi, per le idee che ho. Una volta nella vita mi voglio divertire a fare quello che voglio… Già lo faccio normalmente, ma questa volta voglio esagerare, senza nessuna minima logica commerciale! [risate].
Il resto dell’intervista di Mario Giovannini su Chitarra Acustica 11/19.
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