Ho pranzato con Gilad Hekselman mesi fa in un piccolo Deli turco ad Ijburg, periferia ultramoderna ad Est della città in cui vivo, Amsterdam; lui era qui da qualche giorno e lo avevo già sentito suonare con Eran Har Even prima e con Petros Klampanis poi, e tenere una masterclass al conservatorio.
Si ricordava di me perché avevamo passato una settimana insieme a Siena Jazz 2013, e perché lo avevo contattato per una lezione a New York prima ancora, dopo averlo sentito live un paio di volte.
A distanza di anni, incontro dopo incontro, sembra un chitarrista sempre più maturo, migliora continuamente in modo sostanziale. Già a Siena gli avevo chiesto molte cose (ero lì a seguire i suoi corsi), ma è stato un momento di grande ispirazione sottoporlo ad altre domande a distanza di un paio d’anni.
Quali sono gli eventi che ti hanno influenzato di più prima che ti muovessi a New York?
Il vero inizio è stato studiare piano a sei anni, età in cui ho anche scoperto Michael Jackson; ho capito subito che avrei voluto suonare nella vita.
A nove anni sono riuscito a farmi regalare una batteria, ma poi facevo troppo casino, e quindi sono passato alla chitarra non appena i vicini hanno iniziato a lamentarsi. Il mio maestro all’epoca era un chitarrista rock, ed è stato lui a convincermi a provare un’audizione per un’orchestra giovanile nella TV israeliana. Ho fatto l’audizione, mi hanno preso e mi sono trovato da subito a suonare settimanalmente a suonare con professionisti, piuttosto seriamente. Avevo 12 anni.
Qualche anno dopo ho iniziato a suonare Fusion e mi sono iscritto alla Thelma Yellin ad un corso di Jazz vicino a Tel Aviv, che è la scuola da cui provengono praticamente tutti i musicisti israeliani che stanno a New York oggi. Da lì in poi tanti concerti, e poi ovviamente New York nel 2004. Avevo 21 anni quando mi sono iscritto alla New School, lì è iniziato tutto.
Durante la masterclass parlavi della sincerità in un musicista. Come descrivi un musicista sincero? Pensi ci sia una connessione fra questo punto e il modo in cui tu hai “elaborato” il tuo suono?
Io credo chiunque di noi abbia un suono personale innato, ma alla fine chi sono io per sapere la verità? La mia esperienza personale è che più che “trovare” un suono, uno dovrebbe rifinire quello che ha, almeno io così ho fatto. Si tratta di rendere il modo in cui si suona sempre più sincero, ed è così che ci si congiunge alla questione dell’onestà nel musicista. Per me era più semplice avere una voce personale prima di acquisire la notorietà attuale come chitarrista; ora mi sento sotto osservazione costante, mentre all’inizio facevo quello che volevo e non me ne importava nulla.
Riguardo all’onestà, se guardo dentro di me riesco a sentire se qualcosa è “giusto” o “sbagliato” per me. Sento se quello che sto suonando o scrivendo non rappresenta ciò che voglio presentare, per esempio. Ogni scelta musicale crea delle sensazioni in noi, cerco di concentrarmi profondamente su ognuna di esse e di rispettarle. Quando studio, per esempio, faccio grande attenzione a non suonare cose che non sento, o torno a lavorare su cose che non ho mai suonato bene veramente. Una scala che hai sempre diteggiato male, una melodia, qualsiasi cosa…
Una volta posta la giusta attenzione su questo profondo ascolto di sé stessi, puoi sempre sapere se quella che stai facendo è la cosa giusta per te, suonando, scrivendo musica, o vivendo la vita di tutti i giorni. Credo ci sia bisogno di fare pratica, non è una cosa istantanea, ma si migliora di giorno in giorno, e man mano si diventa sempre più veloci a riconoscere le sensazioni, senza farne un dramma: semplicemente se riconosci che qualcosa non ti va a genio, non lo fai più.
Provo sensazioni contrastanti riguardo al termine “suono personale“… Credo sia solo una questione di seguire i propri gusti. A me ad esempio non piace quando la mia mano destra plettra troppo forte, ma è solo il mio gusto, a qualcuno può piacere. Questo potrebbe essere il punto di incontro fra l’onestà e il suono di ogni musicista.
Plasmiamo noi stessi come musicisti sul modello di artisti venuti prima di noi che amiamo, ma poi sta a noi rifinire i particolari per rendere il risultato finale più vicino al nostro gusto. Penso gran parte della pratica sia capire i tuoi gusti, ma ancora di più capire cosa non ti interessa, ma è solo qualcosa che qualcuno ti ha detto che dovrebbe essere importante per te. È molto importante restare flessibili, ascoltare i dischi che la gente ti consiglia, ma alla fine solo tu sai cosa è “buono” e cosa no per te in quel momento. A quel punto basta dirsi “mi piace” o “non mi piace”.
Ho lavorato sul mio suono seguendo questa idea, cercando consapevolezza verso quello che mi piaceva e trascrivendo artisti con lo scopo di entrare in contatto con la loro idea di fraseggio. In genere la gente non va fiera di suonare come qualcun’altro, ma se ogni tanto mi sembra di imitare il suono di Coleman Hawkins, Lester o Gonzalo Rubalcaba per esempio, la prendo come una cosa positiva. Sono onorato, credo sia una cosa positiva.
Sarei onorato allo stesso modo se qualcuno pensasse a me allo stesso modo mentre suona. Se la mia musica influenza qualcuno in maniera positiva, beh, è fantastico! Non potrei pensare ad un miglior modo di trascorrere la mia vita.
Cosa stai studiando ultimamente?
Cambia continuamente. Ora come ora direi niente, sono in una fase in cui voglio scrivere un sacco e non studiare. Potrebbe cambiare domani. Ho imparato a volermi bene anche se non studio la chitarra, anche se c’è voluto del lavoro per sentirmi così, e la missione non è ancora compiuta. Ad ogni modo suono sempre, devo imparare musica per le gig, suonare dal vivo o cose del genere.
Come scrivi musica?
Inizio con un’idea, quasi sempre. Inizio a cantarmi qualcosa e magari riconosco che è qualcosa che non ho mai sentito prima. La registro, o la scrivo al computer. Parto da una melodia, o da un’idea ritmica, o magari sento un pezzo e provo a scrivere una cosa del genere, qualsiasi cosa. La cosa che ho imparato è che il momento ideale per finire i pezzi, per quanto mi riguarda, è lo stesso in cui mi viene l’idea. Quando l’idea viene cerco di sviluppare l’intera composizione al momento scrivendo tutto o gran parte di quello che sarà il risultato finale. Poi posso rifinire.
In genere se aspetto troppo tempo prima di occuparmi dell’idea iniziale, finisco per non concludere molto. Ho capito che la mia creatività funziona così. Ci si ricollega al discorso dell’onesta nel momento in cui dobbiamo capire cosa manca al pezzo, cosa non ti rappresenta. È molto chiaro dal momento che uno entra in questa visione generale.
E come hai studiato improvvisazione a due voci?
Non ho un metodo, ma ho provato davvero di tutto. All’inizio ero profondamente concentrato sull’abilità di “sentire” le due voci veramente, ancora prima di essere in grado di suonare. Quella è la cosa più importante. L’altra parte sta nell’articolarle in modo che suonino ben distinte una dall’altra. Un buon esercizio è lavorare su materiale polifonico di musica classica, suonando una delle linee e cantando l’altra contemporaneamente. È anche un grande esercizio di ear training. Ho lavorato un sacco sulle invenzioni a due voci di Bach per esempio.
Un altro lavoro che faccio è quello di suonare due ritmi diversi contemporaneamente sullo strumento: si parte sempre super semplice, senza necessariamente cambiare note man mano. Io mi concentrei solo sul ritmo all’inizio. Si possono ad esempio combinare semiminime e semiminime puntate, con diverse combinazioni. Si possono inventare infinite combinazioni per mettersi alla prova, è un po’ come studiare batteria, ma sulla chitarra.
Personalmente lavoro anche sul suonare due linee separate che si muovono diatonicamente su o giù su una scala, provando a cantare ogni intervallo prima di suonarlo.
Sono tutti concetti molto semplici che poi starà allo strumentista portare al livello successivo. Lo step seguenti agli esempi elencati potrebbero essere la combinazione di più elementi, tipo muovere due linee diatoniche con ritmi diversi, e così via.
Come dicevo mi concentro sul suonare ogni linea in modo da farla suonare separata su diversi aspetti: cerco di differenziare il timbro, la dinamica, l’articolazione, la lunghezza delle note. Suono una linea legato e l’altra staccato, una mezzoforte e l’altra pianissimo, cose del genere, e ovviamente cerco sempre di invertire gli attributi fra le due linee e di esplorare i concetti in ogni sperduto angolo del manico della chitarra.
Uso una tecnica ibrida nella mano destra, plettro più fingerpicking con medio, anulare e mignolo. Funziona bene anche per il fatto che ottieni subito suoni distinti da ognuna delle due tecniche.
Parlando di linguaggio, ti sentivo parlare del modo in cui trascrivi, cercando contenuto oltre alle note.
Sono interessato allo stesso modo al contenuto armonico/melodico e al feeling. Parlo di dinamiche, articolazione, vibrato, lunghezza delle note, tempo e tuti quei dettagli che in genere vengono un po’ messi in secondo piano quando si trascrive. In realtà per me cogliere il feeling è la prima cosa nel trascrivere. Inoltre anche l’abilità di risuonare il solo sul disco è qualcosa di molto speciale, provando l’esperienza di fare musica nel modo in cui quell’artista la faceva.
È così che impari a fare jazz con l’accento giusto.
Suggeriresti i primi 5 dischi che ti vengono in mente ai lettori?
• Miles Davis – Files de Kilimngiaro
• Joao Gilberto – Bossa Nova!
• Amhad Jamal – Live at the Pershing
• Clare and the reasons – The Movie
• Ali Farka Turè – Savane
Aspetta, posso continuare? Devo assolutamente aggiungere il disco di Tigran:
• Tigran Hamasyan – Shadow Theatre
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