Ho ancora davanti a me quegli occhi curiosi, brillanti, spiritosi… dietro di essi una vita incredibile piena di esperienze straordinarie e di momenti memorabili.
Era nella stanza di un hotel a Baltimora e con lui ad assisterlo c’era il figlio. Al vecchio Les era spettato il compito di benedire e inaugurare il I° Congresso Mondiale della Chitarra, nel 2004, un evento pieno di grandi chitarristi di ogni tipo, tutti con un debito di riconoscenza – anzi vari – nei confronti di questo signore dallo spirito arguto.
Se non per il suo lavoro pionieristico di chitarrista, quello svolto soprattutto negli anni ’50 assieme alla sua partner Mary Ford con notevole successo commerciale, tutti gli dovevano sicuramente qualcosa come geniale inventore.
Il “Thomas Edison dell’industria musicale” era stato infatti uno di quelli che avevano creato il concetto stesso di chitarra elettrica e non è un caso se il suo nome è impresso ancora oggi sulla paletta di uno dei modelli più diffusi, uno degli strumenti simbolo del rock.
Ma come se non bastasse, era stato sempre lui a realizzare la prima macchina per la registrazione multitraccia, quando ancora nessuno arrivava a immaginare una cosa del genere più di mezzo secolo fa.
Queste e dozzine di altre invenzioni erano il frutto di una vita dedicata alla continua ricerca di innovazioni, di strumenti utili a rendere sempre più facile e creativo il mestiere del musicista. E a lui veniva facile… la raccontava così:
“Il fatto è che a volte mi vengono delle idee, a volte stupide, altre solo diverse dal solito e la curiosità di vedere cosa succede se le realizzo… Invece di guardare la tv, a volte la sera mi metto a costruire qualcosa… è il bisogno di realizzare delle idee. Sono sempre un uomo curioso che vuole scoprire come succedono le cose…”
Raccontaci della nascita del tuo rapporto con la Gibson.
Andai dal chairman della Gibson a metà anni quaranta con la mia “The Log”, un “ciocco” di legno da 4 x 4″, e loro si fecero grandi risate senza dargli peso, quasi fosse uno scherzo. Dieci anni dopo stavano ancora ridendo, ma mi richiamarono per chiedere cosa avrei fatto per renderla un po’ più attraente, un pezzo di legno con due ali di cassa di chitarra appiccicate ai lati. Così glielo dissi e, prima di iniziare il progetto, mi chiesero quali fossero le mie richieste.
Per loro era ok dividere gli utili a metà, 50-50, ma a quel punto uno dei dirigenti della Gibson pensò che questa era una buona idea e prese l’iniziativa di brevettare a suo nome lo strumento.
Per questo fu subito licenziato, ma la cosa non aiutò né me né lui, e non cambiò nulla perché la chitarra Les Paul diventò comunque famosa a prescindere che qualcuno pretendesse di possedere i diritti sulla sua paternità…
Avrei potuto ricorrere a mezzi legali e l’avrei lasciato con il culo per terra, ma non mi interessava perché io non ho brevettato mai nulla nella mia vita.
Pare ci sia un brevetto per il pickup humbucking che risale addirittura al 1934, vent’anni prima di Seth Lover…
…ma il concetto dell’humbucker è ancora più vecchio! Quando ho smontato il mio primo telefono avevo sei o sette anni e l’humbucker era lì dentro!
Negli anni venti già sapevo cos’era un humbucker. Ho imparato dalla compagnia dei telefoni, gli sono sempre grato perché erano avanti anni luce nella comprensione dei problemi tecnici sulla trasmissione del segnale.
Hanno fatto il loro lavoro. Io ho modificato l’amplificatore della radio di mia madre e poi il suo Victrola (apparecchi “giradischi” dei primi decenni del ‘900).
Quando hai iniziato a sperimentare l’overdubbing registravi su vinile?
Sì, su vinile. Era molto semplice. Registravo una parte sul primo disco e poi un’altra sul secondo disco, per poi unirle assieme su un terzo, e così via, continuando ad aggiungere. Col nastro è diverso. Il primo sistema che ho inventato, chiamato sound-on-sound, aveva quattro testine e funzionava in un modo che oggi è comune a tutte le macchine di questo tipo, ma allora no!
Qualcosa è cambiato negli anni cinquanta nella comunicazione con il pubblico, vero?
È proprio così. Subito dopo la guerra ci siamo accorti che le cose erano cambiate. Durante la guerra il mio ruolo era quello di intrattenere le truppe in tutto il mondo con la musica. Questi ragazzi sono partiti lasciando una musica che ti permetteva di ballare e di ridere, aveva tutti gli ingredienti. Quando sono tornati dalla guerra era tutto cambiato: c’era il bebop e loro hanno provato a ballare, ma hanno scoperto che con quella musica la cosa non funzionava. Dov’era finito il ritmo?
Così dal 1945 in poi la ‘band music’ ha iniziato a cambiare, anche se non immediatamente: c’è voluta forse una decina d’anni. Poi le nuove generazioni hanno preso in mano la situazione e hanno cercato di nuovo il ritmo e allora abbiamo sentito la prima canzone rock’n’roll, che aveva un ritmo trascinante.
Non era sofisticata come oggi, ma era l’inizio: dicevano che il ritmo viene per primo.
Non dipende anche dall’atteggiamento del musicista?
Certamente! Ho imparato molto giovane a non girare la schiena al pubblico in modo da vedere se stanno ballando o no. Se smettono di ballare e se ne vanno significa che stai facendo qualcosa di sbagliato. Suoniamo per la gente!
Una volta, stavo giusto per entrare in scena con Mary [Ford], la mia partner per tanti anni, e le ho detto: “Mary, sai, mi sono appena reso conto di una cosa… che potremmo benissimo fare a meno di fare il primo pezzo, tanto nessuno se ne accorge.”
In quel momento sono troppo occupati a misurarti, a pensare: “Oh, pensavo che fosse più alta, meno carina!” “Guarda le dimensioni di quella chitarra!”
Gli ci vuole un po’ più di un minuto prima di inquadrarti, mettere il timbro e dire: “Ok, mi stai bene“.
A quel punto, tutto ciò che devi fare è andare avanti con lo spettacolo senza mandare tutto a puttane, ma devi fare qualcosa di veramente grave per rovinare le cose.
Perché ti hanno dato l’ok! Ma quel primo minuto e mezzo… ragazzi…
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