Nell’intervista di Reno Brandoni è Ligabue stesso a ricordare l’inizio della passione per la chitarra acustica e quella brutta canzone scritta a diciott’anni.
In un pomeriggio di dicembre 2016 mi siedo con Luciano Ligabue nella regia del suo studio con l’obiettivo di scoprire il suo percorso chitarristico. Contemporaneamente mi immergo in un mondo fatto di genuinità ed entusiasmo, che è sempre più raro trovare tra i marciapiedi delle nostre città.
L’intervista diventa conversazione e mi allontano a fatica quando è l’ora di dire basta, perché per me non è mai abbastanza.
Inizio subito con una domanda per soddisfare una personale curiosità. Ho letto in un’intervista di due anni fa che hai iniziato a suonare la chitarra fingerpicking grazie alle tablature che venivano pubblicate su Ciao 2001. È interessante saperne un po’ di più visto che è stato l’inizio di molti di noi.
Siamo nella seconda metà degli anni settanta, il ’75-’76 grosso modo. Io, che allora avevo quindici o sedici anni, vedo succedere le seguenti cose: si aprono le radio libere, di colpo, e la musica che ci veniva proposta solo da Per voi giovani o Supersonic o Pop Off, quindi dai programmi della Rai che andavano in onda al massimo due volte al giorno, diventava invece una musica che poteva andare in onda ventiquattr’ore al giorno, trasmessa da gente che aveva poco più dei nostri anni, quindi con un occhio anche sulla società, libero da tutto.
La partenza delle radio libere è stata pazzesca, e poi ti ritrovavi a farne parte perché, per aprire una radio, bastava veramente niente all’epoca. Serviva uno che avesse un po’ di abilità tecnica e praticamente ne veniva fuori una radio, magari fatta con un trasmettitore accroccato in una morsa; una radio che era capace di coprire trenta-quaranta chilometri, perché l’etere era vuoto, quindi non c’era bisogno di grandi trasmettitori, non c’era bisogno di ripetitori, non c’era bisogno neanche di pagare le frequenze.
Era tutto libero. E, unitamente a questo, c’era il fatto che i cantautori vivevano probabilmente un periodo magico. In quel momento i cantautori, non solo producevano una qualità pazzesca, tutti quanti, ma avevano un credito tale da essere primi in classifica costantemente.
Quindi era diverso l’approccio delle persone alla canzone e, in tutto questo, esisteva questo settimanale che era un settimanale di musica, molto appassionato, che quindi andava benissimo per noi appassionati.
Ricordo ancora che mandavano gli inviati, tra cui Armando Gallo, a seguire le tournée internazionali della PFM e pubblicavano dei servizi in più puntate, quindi con un grande dispendio di energie e anche economico. E nel retro di copertina di ogni numero di questo Ciao 2001, c’era una tablatura.
Ora, io avevo ricevuto in regalo una chitarra da mio padre, misteriosamente, perché mio padre – che gestiva una balera – ci teneva a ripetermi ogni domenica a pranzo, di fronte al classico piatto di cappelletti, che i musicisti sono tutti dei morti di fame! Quindi pensavo veramente che lui non volesse proprio che io facessi nulla del genere.
Poi di colpo, improvvisamente, mi ha regalato una chitarra acustica e non era neanche il mio compleanno!
Ti ricordi che chitarra era?
Era una Clarissa con corde di nylon. E a quel punto feci una prima lezione con la maschera del locale di mio padre, praticamente la persona che strappava i biglietti e che aveva promesso a papà che mi avrebbe insegnato lui a suonare la chitarra. In realtà abbiamo avuto soltanto un incontro, in cui mi ha fatto vedere che sapeva suonare un pezzo dei New Trolls, “Una miniera”, però sapeva fare solo quel pezzo lì ed era assolutamente incapace di spiegarmi come suonarlo.
Così è successo che in seguito mi son dato da fare da solo, e lì le tablature di Ciao 2001 sono state molto importanti. La tablatura infatti ha questo di bello, che è molto intuitiva come mezzo e quindi, vedendo la posizione delle dita, mi permetteva di capire come mettere la mano sinistra, cosa fare con la mano destra, e di cominciare a suonare pian pianino i pezzi degli altri.
Sai che l’autore di quella rubrica era Andrea Carpi, che adesso è il direttore del mensile per cui ti sto intervistando?
Questo non lo sapevo! Allora salutamelo e digli che ha fatto un ottimo lavoro.
Mi racconti della tua prima composizione?
Allora, il primissimo pezzo l’ho scritto a diciotto-diciannove anni ed era un bruttissimo pezzo, si chiamava “Cento lampioni”. Io, che ero stato totalmente affascinato dal mondo dei cantautori, cercavo di scrivere – tra virgolette – ‘canzoni d’autore’, che però mostravano più ambizione e presunzione che non qualcosa di sensato.
“Cento lampioni” parlava di una puttana in cerca del proprio riscatto, una che sembra quasi pronta a cambiare vita, a potersi finalmente permettere un futuro senza quella professione, quindi era un una canzone con dentro una vaga idea moralistica… Ed era scritta tutta quanta sul Fa settima maggiore e il Do settima maggiore.
La passione per lo strumento?
Quella è sempre rimasta. Devo dire che, dopo pochissimo tempo, ho capito che senza le chitarre acustiche… Vedi, posso fare a meno di suonare le chitarre elettriche, nel senso che le imbraccio quando devo fare dei concerti, ma non posso fare a meno delle chitarre acustiche, ho un bisogno fisico di quella vibrazione che viene dalla chitarra acustica.
Io ho sempre scritto le mie canzoni sulla chitarra acustica, sempre. Tutte. E dopo pochi giorni che non la suono, ho proprio una sensazione di assenza di qualche cosa, per cui corro ai ripari. Questo fin dai primi tempi, dopo quattro o cinque giorni che non tocco una chitarra comincio a soffrire di una forma di astinenza.
Questo accade a tutti gli appassionati: la chitarra in qualche modo è uno scudo, un modo per mettere qualcosa tra te e il resto…
Questo no, non credo di aver mai vissuto questa sensazione. È proprio che la chitarra ancora oggi, dopo tante canzoni scritte e tante anche pubblicate, mantiene questo fascino per cui semplicemente la uso per lasciare andare le mani e vedere cosa succede con certe ritmiche; e alcune volte non so neanche io come mai certe ritmiche piuttosto che altre.
In questo album (Made in Italy), per esempio, avrai sentito che “Mi chiamano tutti Riko” è un funk, ed è una ritmica che viene dall’averla scritta sulla chitarra acustica, ma non so come mai sia venuta così questa volta; come quel vago andamento soul di “Ho fatto in tempo ad avere un futuro”, con quei levare che venivano dall’averla suonata con l’acustica.
La tua prima chitarra ‘importante’?
Ho ancora un sacco di belle chitarre, poi magari se vuoi te le faccio vedere… Della seconda chitarra, un’Ibanez, purtroppo non c’è più traccia, mentre la Clarissa l’abbiamo ancora. Dall’Ibanez poi passai a questa Morris (mostra le foto), che sentii promuovere all’epoca e che presi un po’ così. Queste due erano le chitarre che presi all’inizio e che continuai a utilizzare fino a quando ho iniziato a fare questo mestiere.
All’epoca lavoravo e quindi la musica era sempre di più una passione praticata nel poco tempo a disposizione. Per tanti anni la musica ha avuto semplicemente questa dimensione, e ho scritto tanti pezzi bruttissimi, che per il bene dell’umanità non usciranno mai e che avevano tutti quelle caratteristiche di cui ti parlavo prima.
Era il mio tentativo di far vedere che potevo essere un cantautore, però in realtà con molto ‘vezzo’, con molto ‘atteggiamento’.
Erano canzoni poco vere, in cui cercavo anche un linguaggio non mio, per far vedere che potevo accedere a quel mondo. Finché poi è successo che ho scritto una canzone, “Sogni di rock’n’roll”, che era veramente la fotografia di un mio sabato sera.
Allora mi son detto che la mia strada era quella, che dovevo fare quello che sapevo, quello che conoscevo bene, scrivendo un po’ come parlo.
E questa cosa mi ha permesso di trovare una chiave, che poi ha fatto sì che tutto di un colpo, molti anni dopo che avevo cominciato a suonare la mia prima chitarra, mi sono ritrovato a fare il mio primo concerto con il mio primo gruppo. Avevo ventisette anni, e da lì tutto è andato molto velocemente: nell’arco di un paio di anni ho trovato un contratto discografico, il mio primo disco del ’90 (Ligabue) è andato bene da subito… e via andare!
Da lì il mio rapporto con le chitarre è andato sempre in crescendo, perché a quel punto me le potevo permettere, quindi potevo apprezzarne anche le diverse qualità. Alcune addirittura me le regalavano…
Il resto dell’articolo e dell’intervista è pubblicato su Chitarra Acustica n.01 del 2017.
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