Nel 1991 Mauro Pagani parla dell’album Passa la bellezza e dei lavori con De André, Le nuvole e Crêuza De Mä, tra geniale fusione stilistica e rigore artistico.
Quando esce il suo secondo album solista, a 13 anni dal primo, Pagani è considerato un musicista al di fuori del flusso commerciale e degli schemi generali della produzione discografica, una vera mosca bianca nel contesto musicale italiano in cui rivendica – senza peli sulla lingua – un ruolo di crossover fra mondo colto e rock…
M.P.: …quando uscimmo con la PFM, credo che fossi l’unico musicista rock in Italia ad aver fatto il liceo classico… La tragedia è questa, no? Ed è questa in fondo la tesi del mio nuovo disco da solista: rock e liceo classico! Vado da Archiloco al vaffanculo. Perché questo è il mondo di molta gente che poi – però – non riesce ad esprimersi fino in fondo, perché una delle due componenti la manda a farsi fottere o ne fa un uso di maniera. Strano, no?
In Passa la bellezza – come scrive Andrea Carpi nella sua introduzione all’intervista – Pagani riesce a esprimere una vera sintesi fra canzone d’autore e musica etnica, raccogliendo la lunga esperienza accumulata partendo dal prog della PFM e in lunghi anni di studio della musica popolare internazionale, messa già a frutto con Fabrizio De André in capolavori come Crêuza De Mä e Le nuvole.
L’aspetto più appariscente dei dischi citati – oltre all’uso del quasi incomprensibile dialetto ligure di De André – è la presenza di strumenti etnici che nelle mani di Pagani assumono un ruolo fondamentale nell’economia delle canzoni, caratterizzate profondamente da bouzouki, oud, saz. Anche strumenti “normali” come violino o mandolino vengono sfruttati in maniera molto personale.
Eppure, dietro al suono rimane lo spirito di un inguaribile sognatore…
M.P.: Credo che anche in questo album ci sia un tentativo di descrivere il mio rapporto con il sogno, che continuo a intrattenere mio malgrado, nonostante sappia che i sogni non si avverano. Perché uno sa, quando passa i quarant’anni, che un mondo migliore di questo non lo vedrà mai nella sua vita. Per poter arrivare a dei miglioramenti sostanziali, dovranno passare almeno altri cento anni, penso… Però, c’è l’impossibilità di non sognare.
Le nuvole di De André è un disco molto bello. Però mi sono chiesto come mai per molti sia diventato addirittura «straordinario»… Forse perché è scritto e realizzato secondo criteri che solo all’estero qualche raro musicista ha il coraggio di seguire?
È proprio questo il punto. Proprio questo. Ma secondo me era effettivamente straordinario l’album precedente di Fabrizio, Crêuza De Mä, nel senso che quando è uscito era un disco così avanti sui tempi, così coraggioso … Un cantautore famoso per i testi che esce con un disco in cui non si capisce una parola!
In un momento di massima spinta dei fenomeni americani noi usciamo con un disco “terrone”, pieno di strumenti strani … Non a caso ha avuto la risposta che ha avuto e l’ultima gratificazione è stata quella di David Byrne, che in un’intervista lo ha inserito tra i dieci migliori dischi degli anni ottanta. Era su Rolling Stone.
Quanto a Le nuvole, in realtà, è arrivato come una “cannonata” perché da anni a questa parte siamo in un periodo di tragedia contenutistica, culturale e compositiva della musica italiana… e mai come quest’anno!
Negli ultimi due album di De André è interessante anche il discorso sui suoni. Fabrizio colpisce perché ha il suo passato, il suo ruolo di narratore e di poeta, i testi insomma. Ma forse «straordinario» qui è il lavoro fatto sul suono, sugli strumenti, in un’ottica assai rara… per quanto la cosiddetta world music cominci a diffondersi anche da noi.
Già, ma arriva adesso che il fenomeno si è quasi esaurito e una serie di musicisti sono stanchi! C’è gente che lavora da quindici anni sull’Africa e magari ha voglia di mettersi a lavorare sulla Mongolia, non so… Dell’Africa, comunque, non ne può più. Io stesso adesso sono riconosciuto per questo ruolo intorno ai suoni mediterranei e via dicendo: ma sono dodici anni che ci lavoro sopra e non ne posso più! Sono diventato quasi il sacerdote di questa musica…
Stranamente sembra che sia rimasto quasi l’unico e inossidabile alfiere del rapporto con la musica etnica e popolare, mentre invece chi mi conosce da tanti anni sa che questo amore mi è venuto frequentando, vivendo e lavorando con dei musicisti che da parte loro si occupavano di certe cose già da tempo. Parliamo del Canzoniere del Lazio, per esempio.
Un simile orientamento era una prerogativa della cultura musicale progressiva italiana degli anni settanta, una cultura ammazzata dall’industria e ignorata dai più. Se poi vogliamo fare un discorso completo, possiamo aggiungere che l’approccio dei musicisti di quel periodo con quel tipo di musica risentiva in generale di un approccio ideologico alla vita…
Cosa che spesso rischiava di penalizzare la musica…
…di penalizzarla, certo. Cioè, vi era una musica in cui era permesso di contaminare, come il jazz, e una musica con cui non era permesso, tipo il rock. Ma in realtà col jazz si è massacrata tanta musica, che avrebbe conosciuto un approccio molto più naturale con il rock e il blues.
Fatto sta che molta gente oggi mi chiede: “Come hai fatto a trovare questo modo di comporre?” Beh, mi sarò ascoltato millecinquecento lp di musica etnica! E continuo ad ascoltarne. È l’unico modo per trovare un approccio naturale con questo tipo di suoni, di messaggi: ascoltarli così tanto che alla fine ti diventano naturali.
La lavorazione di Le nuvole è stata contraddistinta da quello che Pagani chiama “un modo umano di usare il computer”. In questo caso, all’epoca, si trattava di un Macintosh II (dotato di ben 80 Mega di memoria!!) con il sequencer Performer, Sound Tools e Alchemy per lavorare sui suoni poi finiti su campionatore Akai S1000.
Secondo me la parte più interessante è il nostro lavoro sul suono, la possibilità di usare “naturalmente” i campionamenti per salvaguardare il naturale, non per fare il finto. Il che è un lavoro… Nell’album Le nuvole c’è una quantità di lavoro terrificante.
Nella… semplicità poi del risultato finale.
È quello! È quello! Sembra tutto pulito, quattro cose, no? Però tutto suona, tutto è stato ragionato, deciso, ma sempre con l’obiettivo primo di non farsi fottere dalla sindrome dello studio. Con De André, sai, si analizza contenutisticamente ogni scelta: qualunque cosa messa nel disco ha un rapporto con il contenuto del progetto, o in senso lato o in senso stretto. E quindi, alla fine, è difficile che ci siano cose paracadutate lì in mezzo “alla cazzo”. È un disco il cui progetto è costato due anni e mezzo di lavoro…
Per leggere il resto dell’articolo e dell’intervista acquista Chitarre n.62/91 scrivendo a [email protected].
Aggiungi Commento