Il grande Larry Carlton alla fine degli anni ’80 sul mestiere del chitarrista e sulla scelta dello strumento giusto.
Migliaia di turni di registrazione per una carriera iniziata negli anni sessanta con una serie interminabile di fiori all’occhiello quali le collaborazioni con Joni Mitchell, Steely Dan, Ray Charles, Barbra Streisand, Michael Jackson. Un suono e uno stile personali associati alla chitarra usata quasi esclusivamente nella maggior parte di questi lavori, la Gibson ES-335.
Al momento dell’intervista, ottenuta dal solito irriverente Gianfranco Diletti e pubblicata sul n.13 di Chitarre nell’aprile 1987, Carlton è impegnato a sviluppare la sua carriera solista e a trasformare il suo stesso suono. Anche a costo di rinunciare al suo strumento-icona e a sperimentare nuove soluzioni, magari senza cambiare il nome del suo studio personale, la famosa Room 335.
È grazie a lui e Steve Lukather, in particolare, se all’epoca emerge un nuovo marchio come Valley Arts, focalizzato nella produzione di strumenti profondamente ancorati alla tradizione Fender ma dotati di caratteristiche crossover che li rendevano particolarmente versatili.
È lo stesso periodo in cui escono alla ribalta personaggi come Bob Bradshaw, guru delle pedaliere, e Howard Dumble, mitico creatore di amplificatori dal prezzo quasi inaccessibile.
Larry, spiegaci questo passaggio di Mr. 335 alla strato.
È cominciato su Sleepwalk, dove ho suonato una chitarra di quel tipo; non è quella che uso ora, ma è comunque una Valley Arts. Non avevo mai suonato una strato, c’era qualcosa nel ponte o… non so, ma ho usato una Gibson per così tanti anni che la mia tecnica non si trasferiva su una strato. Poi Valley Arts ha costruito questa chitarra per me; così ho provato a suonarla e mi sono innamorato del timbro, ma ancora non avevo la scioltezza cui ero abituato.
Mi piaceva la sonorità della strato ma non la usavo per situazioni che richiedevano molta tecnica. Poi mi hanno fatto una telecaster e dopo ancora una piccola strato con 24 tasti e il manico molto sottile per avere una chitarra facile e veloce. Ci ho studiato, ho parlato con altri chitarristi, li ho osservati suonare le loro e all’improvviso ho cominciato a trovarmi a mio agio. L’ho suonata e risuonata, e penso che imparare a suonare la strato ha ora migliorato la mia tecnica sulla 335.
Il chitarrista che ha reso famosa, quasi obbligatoria in un certo momento, l’accoppiata Gibson ES-335 – Mesa/Boogie, ora cambia completamente le carte in tavola; oltre alla chitarra, anche l’ampli. Cosa succede?
Da qualche anno uso un Howard Dumble Overdrive Special, amplificatore a valvole artigianale fatto a L.A., molto caro. Ha dei suoni meravigliosi ed è molto versatile. Lo svantaggio principale è che Howard è l’unico che sa come metterci le mani. Nessun problema particolare, finora, ma mi sono reso conto che da qualsiasi altra parte del mondo, in tour, ad esempio, potrebbe essere scomodo.
In Europa, ad esempio, ho avuto un guasto, c’era un problema col jack d’ingresso. Quando l’ho riportato, Howard ha smontato il telaio e c’erano tutte queste particelle metalliche nell’ampli che lo mandavano in corto. Così ho cambiato il tipo di cavo-jack che uso. Non era colpa dell’ampli, ma di un cavo da due dollari. Ma sui dischi, a partire da Sleepwalk, uso un mucchio di diretta: strato all’ingresso dell’ampli e da lì, tramite l’uscita linea, direttamente al mixer.
Larry, quali qualità reputi necessarie per essere un buon turnista? Sembra un approccio prevalentemente tecnico e invece, ascoltando te, tutto sembra più orientato sul feeling anche se hai molta tecnica.
Le doti principali sono la versatilità e la personalità: devi essere bravo e legare con la gente, con i produttori. lo ho cominciato a lavorare in studio nel ’69, con la TV, qui a L.A. Volevano che io sapessi leggere le parti, ma anche che le suonassi con un sound moderno. C’era gente che sapeva leggere, ma forse il loro suono non era attuale.
Poi hanno cominciato a chiamarmi per i dischi per gli stessi due motivi: lettura e interpretazione. Nei primi ’70 non c’erano molti musicisti in grado di fare entrambe le cose. C’era anche gente chiamata soltanto per suonare dei lick, ma che non sapeva leggere assolutamente. E c’era un chitarrista, quello con il gusto più delizioso che io abbia mai sentito, Louie Shelton, che sapeva leggere appena, ma suonava così carico di gusto che il risultato finale era sempre splendido.
Quando io ho cominciato sapevo già leggere benissimo e ho imparato poi il gusto da Louie e ciò mi ha avvantaggiato su altri chitarristi.
So che può sembrare una domanda scema, ma… c’è un qualche tuo modo standard di affrontare un assolo?
Normalmente sembra che il mio assolo parta molto semplice, una nota, due note, tre al massimo, perché voglio sempre avere il tempo di reagire a ciò che qualcun altro suona. lo conosco ciò che ho in testa: ci si stanca a sentire sempre le tue stesse idee. Così, all’inizio dell’assolo suono una cosa tipo (canta due-tre note)… e poi aspetto.
E forse qualcun altro acchiappa un accordo e fa (canta ancora)… e all’improvviso mi ritrovo questa quinta alterata. Ecco: io rispondo a ciò che altri suonano. Così, provo a dare una piccola informazione e a lasciar passare un mucchio di tempo, in modo da ottenere nuovi dati musicali, ispirazioni, piuttosto che suonare sempre quello che ho in testa.
Io reagisco alla musica: quando registro, di solito la mia prima o seconda take è quella buona.
Hai l’orecchio assoluto?
No. Ho sviluppato il mio orecchio al punto in cui posso riconoscere qualsiasi nota, qualsiasi accordo in qualsiasi momento. Non ci sono nato, e qualche volta sbaglio, ma con gli anni ho sviluppato la raffinata arte dell’ascolto.
Ti voglio raccontare una cosa. Quand’ero piccolo ero solito girare con un diapason in tasca: volevo sapere! Con una matita colpivo le cose intorno a me (colpisce un portacenere) Bang!, questo è Do# (vero!) e attraverso questo (riferimento del diapason e relativo intervallo) determinavo la nota.
Oppure riferivo tutto a un Sol, la nota più bassa nella mia estensione vocale quando canticchiavo era questo Sol (lo canta e lo prende, forse un pelino crescente…). Questo, comunque, non era proprio Sol (!!), perché la mia voce è cambiata in questi 15 anni, ma il punto è che riferivo ogni nota a una che conoscevo e adesso, dopo tutti questi anni, ogni nota ha il suo preciso posto nella mia testa.
Sulla nascita della collaborazione con gli Steely Dan non si è mai saputo granché: perché non ci sveli qualche piccolo mistero filtrato al di là del vetro di alcuni fra i più sofìsticati studi di registrazione del mondo?
Ok. In virtù dei molti dischi in classifica che mi vedevano coinvolto venni chiamato a produrre un album di Joan Baez, Diamonds and Rust. Devo ammettere che non sono un fan di questo tipo di musica, ma ho comunque cercato di fare del mio meglio, tanto che l’album ha avuto il disco d’oro ed è stato il suo album più venduto.
Da ciò è nata la mia collaborazione con gli Steely Dan. Walter Becker, a cui non piace la musica della Baez, quando ha sentito ciò che ci avevo fatto io mi ha detto: Se qualcuno può fare una cosa del genere con qualcosa che mi è così sgradita, voglio proprio vedere cosa può fare con ciò che mi piace (risate)!
L’articolo completo di Gianfranco Diletti è disponibile sul numero 13 di Chitarre/1987, acquistabile scrivendo a [email protected].
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