Non ho mai creduto a Billy Idol. Malgrado all’epoca fossi un ragazzino, parlo dei primissimi anni Ottanta, mi era già chiaro che in lui c’era qualcosa di poco convincente. Qualcosa che non tornava. Sarà che ancora li potevi vedere in giro, i punk. Quelli veri. E non erano mica un bello spettacolo. Ganzi e tosti, sì. Ma ruvidi, spigolosi, con l’aria di chi è stato preso a calci e non ha alcuna intenzione di togliersi di mezzo.
Di bello, di quel bello che finiva sulle copertine delle riviste, i punk avevano ben poco. Quasi nulla. Billy, invece, arrivava e bucava copertine, altoparlanti, video. Con quei video. I capelli platinati, lo sguardo allusivo, il labbro superiore piegato in un ghigno così sprezzante da sembrare il fumetto di un ghigno sprezzante. Il chiodo o il gilet di pelle aperti sul petto, su quel petto levigato, precipitosamente glabro.
No, non ci ho mai creduto davvero, a Billy Idol. Mi sembrava un punk da postalmarket, un punk da crociera, un punk da passerella. Un punk scenografico e catodico, incastonato in un set saturo di reminiscenze Blade Runner e Mad Max. Eppure, Billy Idol funzionava.
Di autentico, piacesse o meno, c’era l’efficacia delle sue canzoni, ordigni melodici che distillavano dal nichilismo punk solo l’arroganza necessaria ad affondare i denti nella polpa della vita.
Archiviati i Generation X, aveva capito l’urgenza della leggerezza, il bisogno post-punk (inteso come epoca) di consegnarsi a un’autentica ebbrezza d’artificio, di assolversi nella dissolvenza delle ideologie.
Le “Dancing With Myself”, le “White Wedding”, le “Rebel Yell” erano inni senza popolo, punk pastorizzato e posterizzato per chi in fondo non aveva mai sopportato il punk.
Finiva il video ed era fatta: nessuno strascico, nessun attrito. Una formula che per Billy significò milioni di dischi, di sterline, di dollari. Il successo non lo cambiò: lo spedì direttamente in orbita.
“Mi sono arricchito, ed è stato un problema. All’improvviso ho avuto i soldi per consumare troppo, quindi ho esagerato al 100 percento”.
Eccolo, il lato autentico del buon Idol: la mancanza di percezione dei limiti. Camere distrutte. Festini sfrenati.
Tutta la scellerata, prevedibile baracconata del rock’n’roll messa in scena e consumata come se il domani fosse un allegro no future. Senza strascico né attrito.
Finché, nel 1990, sul punto di azzeccare un altro singolo-killer (“Cradle Of Love”), bucò uno stop e spedì la sua Harley a schiantarsi contro un’auto. Rischiò la morte, ma si fece bastare una collezione di fratture.
Fu il suo rehab: smise con l’eroina perché “quando sono uscito dall’ospedale mi sono reso conto che non sarei mai stato in grado di mettere le mani su nessun farmaco puro come la morfina di grado medico”.
Il passo successivo fu il catastrofico Cyberpunk: disco che avrebbe voluto essere profetico (punk rock elettronico) ma riuscì solo a sembrare fiacco e fuori corso.
Billy si giocò così lo scettro di reuccio del glam punk, per non riprenderlo più. Ma nessuno lo ha mai realmente dimenticato.
Stefano Solventi
L’articolo è pubblicato sul n.766 de Il Mucchio Selvaggio in edicola nel mese di maggio 2018.
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