Nelle puntate precedenti abbiamo visto come da un’Europa devastata dal dilagare della svastica nazista, molti compositori partirono per trovare rifugio fra le accoglienti braccia degli Stati Uniti; artisti d’ogni sorta, musicisti, letterati e uomini di cultura lasciarono le proprie case per vivere una parte di quel grande sogno che sembrava iniziare solamente là, una volta approdati sulle sponde oltre l’Atlantico. Malgrado il sogno di salvezza per molti si sia concretizzato, bisogna essere molto cauti nell’identificare il suolo statunitense come la patria della grande rinascita per i tanti emigrati.
In America, ed in particolare in California (dove molti artisti trovarono nuova casa), la fervente industria hollywoodiana cavalcava a briglia sciolta l’introduzione del sonoro nel cinema, e su quest’onda di entusiasmo si erano aperte anche inattese e sempre più prolifiche porte per i compositori che avessero voluto prestare il proprio estro alla settima arte. La musica aveva iniziato a farsi sempre più importante nel suo accompagnare le immagini proiettate per gli spettatori delle sale cinematografiche, ritagliandosi spesso un ruolo di peso equivalente a quello dei fotogrammi su celluloide.
Certo è che per riuscire a trovare il proprio spazio nelle file di produzione hollywoodiane i compositori dovevano prepararsi ad un compromesso, ovvero rinunciare ad una buona fetta della propria libertà artistica per sposare invece una mentalità di lavoro che aveva ben poche vie di scampo dalla scaletta e dai tempi che gli studios dovevano rispettare: “Colui che insiste per la libera espressione della propria personalità farebbe meglio a restarsene a casa a scrivere sinfonie. Non sarà mai felice a Hollywood” parola di Aaron Copland (1).
Se si dovesse scegliere un nome fra i “compositori cinematografici” quello di Bernard Herrmann sarebbe indubbiamente il primo a venire alla mente, senza che figure come quella di Korngold o dello stesso Copland vogliano per questo essere dimenticate. Fermamente intenzionato ad usufruire delle possibilità offerte dai “miracoli” di radio e televisione, nel 1934 Hermann iniziò a lavorare come arrangiatore, direttore e compositore per gli studi della CBS, e nel corso della sua carriera si rese co-protagonista di diversi momenti cinematografici molto importanti: “Psycho” e “Vertigo (La donna che visse due volte)” di Hitchcock, “Taxi Driver” di Scorsese, “L’orgoglio degli Amberson” di Orson Welles ma soprattutto “Quarto Potere” dello stesso Welles. Quest’ultimo conobbe Hermann proprio alla CBS e lo portò con sé quando decise di dare il via alla sua carriera cinematografica.
“Quarto Potere” (“Citizen Kane”) debuttò nelle sale statunitensi il 1° maggio 1941, riscuotendo buon successo di critica e ottima diffusione, malgrado il tentativo di censura messo in atto da William Randolph Hearst, magnate nel mirino della satira di Welles. Il regista, applicando le tecniche perfezionate da Èjzenštejn, girò alcune importanti scene della pellicola soltanto quando Herrmann ebbe completato la partitura, concedendo così alla musica e al suo compositore il ruolo di guida per la macchina da presa.
“La scena di due minuti e mezzo che apre Citizen Kane e mostra gli ultimi istanti della vita del protagonista è sostenuta interamente dalla musica di Herrmann, e l’unico suono estraneo a essa è il sussurro di Kane, ‘Rosebud!‘”(2), non è un caso infatti che Welles abbia affermato senza timore che Herrmann era responsabile di un buon 50% del successo del film.
Il cinema era divenuto in brevissimo tempo il passatempo preferito degli americani, capace di richiamare l’attenzione di grandi masse e spodestando ogni concorrente forma d’intrattenimento: il regno della pellicola aveva lasciato nell’ombra le sale da concerto, dove soltanto i nomi più altisonanti dell’establishment musicale riscuotevano ancora attenzione e successo. Anche quest’ultimi però non fecero fatica a rivolgere il proprio sguardo oltre il podio e verso la collina capeggiata dalla famosa scritta “Hollywood“, monumento al cinema che nel 1932 la giovanissima attrice Peg Entwistle inaugurò come malinconico trampolino di morte, lasciandosi cadere nel vuoto dopo essersi arrampicata fino alla cima della lettera “H”.
Il manipolo di grandi personalità artistiche rifugiatesi a Los Angeles comprendeva un’ampia varietà di nomi: Schoenberg, Stravinskij, Rachmaninov, Bruno Walter, Adorno, Klemperer, Thomas Mann, Aldous Huxley e Eisler si erano immersi nella vita del Sunset Strip e di Bel Air Road, alternando piacevoli incontri di tennis con i fratelli Gershwin o Charlie Chaplin, cene in compagnia di Harpo Marx e chiacchierate con Sinatra e Bing Crosby.
La nuova soleggiata vita sulla costa del pacifico aveva completamente stregato gli esuli, ed è curioso pensare come in un territorio paragonabile ad un fazzoletto, se paragonato al resto del globo, si trovassero: uno dei più grandi autori del secolo (Mann), uno dei più influenti filosofi e musicologi (Adorno) e soprattutto i due indiscussi giganti del ‘900 musicale: Schoenberg e Stravinskij. Ancora più curioso è pensare come questi ultimi due si incontrarono pochissime volte, quattro o forse poco più, senza mai dirsi nulla che fosse paragonabile all’ideale conversazione che due delle personalità più importanti del XX secolo in musica si pensava avrebbero potuto sostenere.
In America Schoenberg sperimentò un’improvvisa voglia di tonalità, provò a dare alle stampe alcuni lavori: “Suite in SOL per archi” (1934), “Variazioni su un recitativo in RE minore per organo” (1941), “Kol Nidre per coro da sinagoga” (1938), “Tema e variazioni in SOL minore per banda scolastica” (1957); i proventi dei quali, nei suoi piani, gli avrebbero permesso di finanziare il grande progetto del “Moses und Aron” (1957), ma non ottenne esattamente i guadagni sperati.
Il rapporto di Schoenberg con il cinema è paragonabile ad un continuo cercarsi di due persone che però, proprio nel momento cruciale del loro incontro, capiscono di non essere propriamente compatibili. Il compositore guardava infatti ad Hollywood come ad un grande desiderio, ed un giorno, verso la fine del 1934, Irving Thalberg, direttore di produzione della Metro-Goldwyin-Mayer, propose a Schoenberg un incontro.
Thalberg cercava un grande compositore per la colonna sonora di “Good Earth” (La buona terra, 1937), e nessuno era più grande di Schoenberg, o di Stravisnskij. Schoenberg ascoltò in silenzio Thalberg, che spiegò per filo e per segno il progetto, ed infine disse che aveva letto la sceneggiatura ma che non avrebbe accettato l’incarico se non avesse avuto controllo sui lavori, ovvero se non avesse avuto la possibilità di lavorare con gli attori, che avrebbero dovuto parlare nelle tonalità con cui lui avrebbe composto. Thalberg diede il via ai lavori e Schoenberg preparò diverse bozze, ma a dividere i due da un perfetto sposalizio artistico fu il denaro richiesto dal compositore. Schoenberg interruppe i lavori in attesa di una risposta che Thalberg non gli concesse mai, e nel nulla svanì il sogno cinematografico.
Stravinskij ebbe un rapporto diverso con la realtà americana, si trasferì in California nel 1940, attratto dal clima e dalla possibilità di poter lavorare per il cinema, “era un patito del grande schermo, e amava i classici film muti di Chaplin, i capolavori comici di Buster Keaton, le commedie romantiche con Katherine Hepburn e Spencer Tracy e i cartoni animati di Walt Disney” (3). Fu proprio un lavoro firmato Disney l’unico approdo cinematografico di Stravinskij, quel “Fantasia” (1940) riguardo al quale Stravinskij ha lasciato in eredità opinioni contrastanti.
La difficoltà di Stravinskij nell’adattarsi all’industria cinematografica non fu data dai soldi, come nel caso di Schoenberg, quanto piuttosto dall’impossibilità degli Studios di poter interrompere una produzione per lunghi periodi di tempo affinché il compositore completasse il suo lavoro. I primi anni d’esilio americano di Stravinskij sono quindi riconoscibili come un ritorno alla sinfonia, forse istigato dalla perenne fame di componimenti sinfonici del pubblico statunitense. Stravinskij nel 1940 terminò quindi la “Sinfonia in do“, iniziata a Parigi nel 1938, e diede al pubblico “Ode” del 1943 e la “Sinfonia in tre movimenti” del 1946.
Il ritorno al genere sinfonico di Stravinskij è accompagnato da un parallelo interesse in questi anni per i temi religiosi, che tornano ad emergere dopo oltre dieci anni dalla “Sinfonia dei salmi” del 1930. Proprio quando Schoenberg sperimentava quel desiderio tonale di cui abbiamo accennato poco fa, Stravinskij si preparava invece a dare una nuova rotta alla sua carriera artistica. Negli anni Cinquanta infatti, periodo di crescente fortuna per le tecniche seriali negli Stati Uniti, Stravinskij, soprattutto grazie alla vicinanza del direttore d’orchestra, amico e confidente Robert Craft, approfondì i lavori della Seconda scuola viennese, degli allievi di Schoenberg e di Webern in particolare.
La serialità stravinskjiana prese il via con “l’impiego di permutazioni di serie non dodecafoniche: nei due ricercari “The Maiden’s Came” e “Tomorrow shall be“, della “Cantata” (1951-52); nella Passacaglia e nella Giga del “Settimino” (1952-53); nei “Tre canti da William Shakespeare” (1953); nei due canoni funebri (Preludio e Postludio) e canto per tenore, quartetto d’archi e quattro tromboni, “In memoriam Dylan Thomas” (1954)” (4).
Poco dopo l’arrivo di Stravinskij in California, il 7 dicembre 1941 l’aviazione giapponese aveva colpito, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor, coinvolgendo così in via diretta l’esercito americano nel conflitto. All’inizio del 1942 Adolf Hitler aveva dato il via alla soluzione finale affidata alle cure delle SS, a causa della quale persero la vita milioni di israeliti provenienti da ogni parte d’Europa.
Accolto dall’esultanza della popolazione italiana, il 25 luglio del 1943 Vittorio Emanuele III aveva firmato l’arresto di Mussolini e la nomina di Badoglio a Capo del Governo. Fra il novembre e il dicembre del 1943, Roosevelt, Stalin e Churchill si erano riuniti nella conferenza interalleata di Teheran, dalla quale emerse il piano di un ingente sbarco di forze armate sulle coste francesi.
Il 6 giugno del 1944 lo sbarco in Normandia diede il via all’operazione Overlord. Nell’autunno dello stesso anno la Germania si poteva considerare virtualmente sconfitta e nella conferenza di Mosca Stalin e Churchill iniziarono ad abbozzare una possibile divisione delle sfere d’influenza sui paesi balcanici. Il 30 aprile del 1945 Adolf Hitler si suicidò ed il 7 maggio successivo a Reims fu firmata la definitiva capitolazione della Germania. Il 12 aprile del 1945 moriva Roosevelt lasciando posto alla presidenza di Harry Truman, il quale avrebbe presto deciso di utilizzare per la prima volta la nuova “arma totale” da tempo in fase di test nel Nuovo Messico. Il 6 agosto 1945 Hiroshima veniva colpita dalla prima bomba atomica, tre giorni dopo la stessa sorte toccava alla città di Nagasaki.
La “Sinfonia in tre movimenti” di Stravinskij si conclude con un accordo “di vittoria sgargiante, esagerato, dichiaratamente hollywoodiano: il suono dell’America in marcia” (5).
Dopo che la prima bomba atomica ebbe colpito il Giappone, Stravinskij decise di aggiungere un’ulteriore pulsazione all’accordo finale, così che il suono della fine riverberasse per miglia e miglia. Con il termine della Seconda Guerra Mondiale il ‘900 musicale sembrò arrestarsi per un attimo come per non cadere nel baratro di macerie lasciate dal conflitto. C’era bisogno di ripartire, di ricostruire, c’era bisogno di Nuova Musica.
IMMAGINE DI COPERTINA: tratta dalla foto di copertina del libro “Schoenberg e Stravinsky. Storia di un’amicizia impossibile“, Enzo Restagno, Il Saggiatore, collana La Cultura, 2014.
Enzo Restagno, critico e storico della musica, direttore artistico di MiTo, Milano Torino Settembre Musica. È autore di numerosi libri su compositori del Novecento come Luigi Nono, Luciano Berio, Alfred Schnittke, Steve Reich, György Ligeti e Hans Werner Henze. Per Il Saggiatore ha scritto “Arvo Pärt allo specchio” (2006) e “Ravel e l’anima delle cose” (2009).
Note:
(1) Aaron Copland, Second Thoughts On Hollywood, in ACR, p.11 Ross p. 461
(2) Alex Ross, Il resto è rumore, Bompiani Editore, III ristampa, Milano, 2013, pag. 465
(3) ivi, pag. 472
(4) Il novecento nell’Europa orientale e negli Stati Uniti, Gianfranco Vinay, 11° volume di Storia della Musica a cura della Società Italiana di Musicologia, EDT, Torino, 1991, p.118.
(5) Alex Ross, Il resto è rumore, Bompiani Editore, III ristampa, Milano, 2013, pag. 474
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