Avendo definito nello scorso video cosa si intenda per onde sonore, potremmo adesso chiederci come generarne una: servirebbe una sorta di membrana vibrante che oscillando potesse mettere in movimento l’aria a contatto con essa… ma questo è un altoparlante!
Vediamo come si riesce a guidare il movimento del suo diaframma (la vera e propria membrana) affinché segua “le nostre istruzioni”, espressione che di volta in volta può significare riprodurre quanto registrato da un microfono, quanto suonato su uno strumento ed intercettato da un pickup, quanto inciso su un disco…
Come funziona un altoparlante
Il principio di funzionamento di un altoparlante a bobina mobile si basa sulla forza di Lorentz, cui è soggetto ogni filo percorso da corrente quando è immerso in un campo di induzione magnetica: come cambia il senso di scorrimento della corrente, così cambia il senso della forza cui il filo è soggetto.
Nel nostro caso il filo è quello della bobina mobile, che è posta in una ristretta regione di spazio chiamata “traferro” perché compresa fra due espansioni polari di materiale ferromagnetico che hanno lo scopo di guidare nel traferro il campo di induzione magnetica prodotto da un magnete permanente.
Essendo immersa in un campo di induzione magnetica, quando vi scorre corrente la bobina è soggetta alla forza di Lorentz, che la spinge in un senso o nell’altro: modificando la tensione applicata alla bobina possiamo dunque controllare senso ed ampiezza della forza agente su di essa e di conseguenza generare onde sonore che riproducano per quanto possibile il profilo del segnale applicato alla bobina.
Così accelerata, la bobina trascina nel suo movimento il diaframma a cui è solidale; per assicurare che il movimento sia perfettamente assiale, l’altoparlante è munito di due sospensioni elastiche, poste l’una alla base e l’altra all’apice del diaframma conico, chiamate rispettivamente “centratore” (o “spider“) e “bordo” (o “surround“).
Torniamo all’altoparlante come membrana vibrante, se facciamo attenzione notiamo che in realtà esso non ne possiede una sola, ma ben due, che oltretutto producono onde di polarità opposta: il davanti ed il retro del diaframma infatti spostano entrambi l’aria che hanno di fronte, ma nell’istante in cui uno la sta comprimendo, l’altro la sta rarefacendo.
Ricordandoci che in bassa frequenza le onde sono emesse allo stesso modo in tutte le direzioni (come visto nella scorsa puntata, la lunghezza d’onda è “troppo grande” perché la membrana di un altoparlante riesca in qualche modo a direzionare l’onda sonora), capiamo che in tal caso le emissioni acustiche del davanti e del retro del diaframma dell’altoparlante rischierebbero di cancellarsi totalmente: le onde sarebbero infatti emesse da due sorgenti praticamente coincidenti nello spazio (se trascuriamo lo spessore del diaframma, solitamente pari a frazioni di millimetro), ed entrambe si propagherebbero in egual modo in tutte le direzioni, ma con segno opposto.
Il problema si può risolvere ponendo l’altoparlante in una cassa, in modo che l’emissione del retro del diaframma possa rimanere al suo interno e non vada ad interferire con quella prodotta dal davanti.
Sebbene dunque la funzione principale di una cassa acustica sia quella di isolare le due emissioni acustiche l’una dall’altra evitando che si cancellino, ciò non significa certo che “una cassa vale l’altra”, ed anzi la forma, il volume interno della cassa, la presenza o meno di condotti di accordo – chiamati anche “condotti reflex” – ed il loro posizionamento influenzano fortemente il suono prodotto, specialmente in bassa frequenza.
L’importanza del cabinet
Senza scendere nei dettagli, si tenga presente che per produrre onde sonore di bassa frequenza al diaframma dell’altoparlante sono richiesti spostamenti importanti, compiendo i quali esso modifica il volume interno della cassa, generando una variazione nella pressione dell’aria in essa contenuta: è il famoso “effetto molla” che sperimentiamo quando tappiamo con un dito il foro di una siringa e proviamo a spingere il pistone con l’altro dito: ad un certo punto l’aria diventa talmente “dura” che non riusciamo più a comprimerla.
Una cassa con ridotto volume interno agisce dunque da “molla più dura” rispetto ad una cassa con volume maggiore. Per generare onde di alta frequenza all’altoparlante non sono invece richiesti grandi spostamenti, ma grande velocità nel compierli: la cassa ha dunque meno importanza e sono altri i fattori a determinare la resa del sistema, in primis la massa delle parti mobili.
Possiamo adesso spiegarci le differenze timbriche fra amplificatori per chitarra elettrica di tipo “open back” (che mancano della parete posteriore, lasciando esposto all’aria il retro dell’altoparlante) e di tipo “closed back” (cassa chiusa): i primi hanno un suono caratterizzato principalmente da medie ed alte frequenze, che si inserisce perfettamente nell’ambito del rock “classico”, genere in cui la parte bassa dello spettro sonoro è coperta da strumenti quali basso o tastiere; i secondi esibiscono invece un suono più completo e “pieno”, che può rivelarsi più utile o adatto ad altri stili musicali.
A proposito di amplificatori per chitarra elettrica, il termine corretto da utilizzare sarebbe “casse acustiche per chitarra elettrica”, in quanto questi non comprendono soltanto l’amplificatore (il cui ruolo è quello di amplificare la potenza del segnale musicale e di inviarlo all’altoparlante), ma anche l’altoparlante ed il cabinet.
Anzi, alcuni dei cosiddetti “amplificatori per chitarra elettrica” nemmeno hanno l’amplificatore e per funzionare necessitano di una testata esterna!
Differenze tra cassa per strumenti musicali e monitor da studio
Se compariamo la risposta in frequenza di un monitor da studio con quella di una cassa acustica per chitarra elettrica (per risposta in frequenza si intende il profilo di pressione sonora prodotta dall’altoparlante quando ad esso è fornito un segnale di intensità uguale a tutte le frequenze), notiamo grandi differenze: la prima è piatta e si estende su tutte lo spettro sonoro, segno che il monitor da studio rappresenta egualmente tutte le frequenze, mentre la seconda ha un aspetto completamente diverso, ha ampiezza maggiore alle medie frequenze e minore agli estremi dello spettro, segno che la cassa per chitarra non riproduce allo stesso modo tutte le note.
Lungi dall’essere un difetto, questa disuniformità timbrica è una proprietà fortemente ricercata e determina il carattere dell’oggetto e la qualità della “pasta” sonora: le casse acustiche per chitarra elettrica vanno intese come veri e propri strumenti musicali, come impianti di “produzione” sonora, e non semplicemente di “riproduzione” sonora!
Nel video proviamo ad esempio a dare una spiegazione del perché casse acustiche con due o quattro altoparlanti identici possano avere un suono diverso rispetto a casse che ne utilizzano uno solo, sottolineando come alle differenze oggettive si sommino anche quelle estremamente soggettive dovute alla nostra percezione.
Nella valutazione sulla “validità” e “qualità” di una cassa per chitarra elettrica entrano quindi in gioco i gusti di ognuno ed i chitarristi potranno continuare ancora a lungo a divertirsi disquisendo su quale sia la migliore cassa per la propria chitarra.
Non resta che augurar loro buon divertimento!
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