Riprendiamo il nostro discorso sui condensatori a diaframma largo e andiamo dritti al sodo, conoscendo da vicino le capsule più amate e conosciute nel mondo dello studio recording.
La prima capsula di cui parleremo è la KK47 (variante della prima M7) progettata dalla Neumann intorno agli anni ’60, un trasduttore a doppia membrana in Mylar a terminazione centrale e singolo backplate.
Si trova nei modelli Neumann U47, U48, M47 e U47 FET, ed è considerata una capsula tendenzialmente scura, per via della sua frequenza di risonanza relativamente bassa, un buon effetto prossimità e la mancanza della classica enfasi sulle alte, più orientata sull’upper-midrange.
La sua antenata, la M7, aveva una membrana in PVC (Poly-Vinyl-Cloride), un polimero plastico in forma liquida, depositato su un supporto di vetro per creare una sottilissima membrana spessa 8 – 10 micrometri.
A differenza delle moderne membrane in Polietilene (come il Mylar e l’Hostaphan), che si presentano anche in spessori da 3 o 6 micron, il PVC è molto più difficile da lavorare ed è più soggetto alla degradazione nel tempo. Per questo motivo ad oggi è molto raro trovare una capsula M7 originale che abbia mantenuto la sua timbrica caratteristica.
Successivamente alla KK47 viene introdotta una nuova capsula, sempre a terminazione centrale ma con un doppio backplate, denominata K67, cuore pulsante del nuovo microfono a condensatore targato Neumann, l’U67.
Mentre la Telefunken smette di produrre la valvola VF14 (Neumann era l’unico acquirente e i costi per la fabbrica non erano più sostenibili) gli ingegneri si mettono al lavoro per lanciare un nuovo modello di microfono a condensatore, l’U67, che in pochi anni diventa il microfono di riferimento negli studi di registrazione di tutto il mondo.
Il passaggio al Mylar era già avvenuto tra la M7 e la K47, così come il sistema di montaggio della membrana (avvitata invece che incollata). Inoltre, a differenza della K47, che condivide con la M7 lo stesso drilling pattern (i fori sull’elettrodo fisso che si possono intravedere attraverso la membrana), il backplate della 67 ha un design innovativo.
Queste caratteristiche conferiscono al microfono un suono molto diverso rispetto ai suoi predecessori, meno scuro e più aggressivo sulla parte alta della banda audio.
Si dice che la nuove caratteristiche progettuali, orientate verso una capsula più chiara e brillante siano dovute ai ‘moderni’ cantanti rock’n roll dell’epoca, che tendevano a cantare molto vicino al microfono per una performance canora più intima, accentuando però involontariamente l’effetto prossimità del trasduttore, che consiste in una enfasi a volte eccessiva delle basse frequenze.
La K67/K870 è la stessa capsula che si trova nei moderni microfoni da studio U87 Ai, mentre una sua variante (la K87) è montata nei vecchi U87 e differisce per il doppio backplate elettricamente isolato (infatti ha 4 contatti elettrici invece che 3).
L’ultima capsula di cui parleremo è la CK12, di proprietà della AKG e risalente agli anni ’50, presente nei modelli C12, ELAM 250 e 251 (marchiati Telefunken) e primi 414. Questo trasduttore differisce sostanzialmente dai primi due per via della sua struttura a terminazione laterale e per la tecnologia di costruzione dei backplate, non più semplici elettrodi fissi (si fa per dire) ma complesse camere di risonanza acustica, dei veri e propri labirinti sonori progettati ad arte per raggiungere il suono desiderato dagli ingegneri austriaci.
La struttura in ottone, unita a questo sistema di risonanza, alla membrana interamente metallizzata e alla mancanza del punto di ancoraggio centrale ne fanno un trasduttore unico nel suo genere, con un suono molto ‘hi-fi’ più esteso delle precedenti sugli estremi di banda e molto uniforme in tutta la parte centrale dello spettro.
Ad oggi esistono molte capsule ispirate a questi modelli di riferimento, copie più o meno fatte bene e variazioni sul tema, ognuna con una sua caratteristica sonora, progettate più o meno bene, economiche o molto costose, in ogni caso ognuna diversa dalle altre.
Concludo esortando gli avventurieri della registrazione ad affidarsi sempre più alle orecchie che alle risposte in frequenza dei microfoni, molto spesso disegnate dai direttori marketing piuttosto che dagli ingegneri, andando in sala ad ascoltare il suono che si vuole registrare e tornando in regia a capire se si è sulla strada giusta, cambiando microfono, spostandolo, ‘perdendo’ molto più tempo a costruire il suono in ripresa che affidandosi ad una post-produzione selvaggia e molto spesso disorientante.
Divertitevi, sperimentate, non fatevi guidare da una regola, ma dalla consapevolezza di quello che state facendo e del modo in cui potete arrivare al risultato che cercate.
Rock ‘n roll!
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