Quando si pensa a un bassista come Pino Palladino il primo concetto che dovrebbe venire in mente è assai ben delineato, e risponde alla parola “versatilità“.
Poco appariscente, estremamente efficace
L’immagine di copertina di questo approfondimento coincide a livello concettuale con una delle caratteristiche distintive del personaggio: il suo è spesso un lavoro oscuro ma efficace, sicuramente non sempre al centro dei riflettori ma costantemente sostenuto da un talento solido che a volte mostra un carattere in tutto accostabile a quelli dei suoi strumenti prediletti, come il Fender Precision Custom Shop signature o l’Ernie Ball Music Man StingRay fretless.
La stima di cui gode questo artista gallese (ma dalle evidenti origini italiane) sia tra gli appassionati del mondo del basso elettrico che in generale tra i colleghi e musicisti di ogni genere è tutt’altro che casuale, e senza dubbio meritata: tra queste righe andremo a scoprire come e perchè se l’è guadagnata nell’arco della sua carriera ormai alle soglie dei quarant’anni di durata.
Tra James Jamerson e Jaco Pastorius?
Esordi insospettabili, se non altro se raffrontati ai nomi che arriveranno successivamente, ma non per questo meno significativi. Si era agli inizi degli anni ’80, in piena epoca new wave, quando l’artista britannico Paul Young fece il suo esordio da solista con l’album “No Parlez” (1983); il disco fece breccia al suo terzo singolo, una cover di “Wherever I Lay My Hat (That’s My Home)“, brano originariamente inciso da Marvin Gaye e arricchito dalla caratteristica linea melodica di basso fretless eseguita da Palladino.
Una connessione, forse casuale ma comunque forte: Pino ha avuto nel mondo della Motown (e in particolare nel grande James Jamerson) uno dei punti di riferimento della sua crescita musicale, per quanto la “voce” dello strumento in questa occasione faccia pensare maggiormente al lavoro di Jaco Pastorius; ma sorprenderà il fatto che in un’occasione, parlando della genesi della frase in questione, il bassista abbia fatto piuttosto riferimento a Stravinskij.
Quale che sia l’influenza principale, tale varietà di direzioni racconta un musicista sviluppato e multiforme. Per la cronaca, la performance risulterà negli anni a venire come un punto di riferimento per i bassisti del genere (e limitrofi), pur nella sua relativa semplicità.
Attraverso i generi musicali
I primi successi portarono in dote una serie di collaborazioni da session man con artisti del panorama pop e rock internazionale anche di enorme spessore: da Elton John a David Gilmour, da Phil Collins ai Tears For Fears, passando anche per l’Italia (con Mango nel 1992 e con Claudio Baglioni nel ’95).
Ma è assai indicativo notare come negli anni ’90 Pino Palladino abbia rivolto le sue attenzioni anche ad ambiti spiccatamente differenti rispetto a quelli descritti.
È il caso del lavoro congiunto con Manu Katché e Dominic Miller, rispettivamente batterista e chitarrista, entrambi sidemen di razza al pari di Palladino; situazioni del genere, più affini al mondo della fusion jazzistica piuttosto che agli ambienti mainstream, hanno dato al bassista la possibilità di esprimersi secondo standard tecnici ben più impegnativi, in un periodo nel quale era peraltro in fase di esplorazione degli strumenti a 5 e 6 corde.
È in questi contesti che emerge in maniera più consistente una personale elaborazione della “scuola Pastorius”, sebbene rinverdita in una chiave modernizzata (e in tal senso pesa l’utilizzo della quinta corda) che rivedremo anche in artisti contemporanei come Alain Caron.
Il 27 giugno del 2002 un triste evento contribuirà a dare una decisa svolta alla carriera di Pino Palladino: John Entwistle, storico bassista dei The Who, muore all’improvviso proprio alla vigilia di un importante tour degli Stati Uniti.
L’artista italo-gallese viene chiamato a sostituirlo in fretta e furia, dando così il via a una collaborazione che durerà fino al 2016 e che lo vedrà anche prendere parte a Endless Wire, il primo album pubblicato dalla band sin dal lontano 1982.
Un’eredità pesante, ma il riconoscimento è pressochè unanime: Pino non avrà forse l’appeal del leggendario Thunderfingers, ma dimostra di possedere la grinta (per alcuni forse inattesa, visti i precedenti ben più morbidi) necessaria ad adempiere il dovere, unitamente a un groove incrollabile: le sue personali interpretazioni del celebre assolo di basso di “My Generation” (nel video qui sopra arricchita dall’utilizzo di un octaver) rappresentano un ottimo indicatore di quanto fosse adatto al ruolo.
Groove per tutte le occasioni
Se chi legge queste righe non è ancora convinto della poliedricità di questo artista, il video qui sopra sarà un bel rafforzativo.
All’alba del nuovo millennio Palladino partecipò all’album Voodoo, secondo disco solista della star del rhythm & blues D’Angelo, in un contesto musicale che ha avvicinato in maniera consistente il mondo del soul tradizionale a quello più moderno dell’hip-hop.
Esteticamente parlando fa un certo effetto vedere la dinoccolata figura di Pino Palladino nella lineup dei The Soultronics (questo era il nome della band che accompagnava D’Angelo nel tour di supporto all’album), ma in termini di groove il buon Pino dimostra di non avere assolutamente nulla da invidiare a stimati colleghi come Questlove o Chalmers Alford (purtroppo prematuramente scomparso): la performance live di “Chicken Grease” qui sopra la dice lunga in proposito.
Pino Palladino è l’uomo ovunque del basso elettrico
Sebbene il ventunesimo secolo abbia portato una serie di collaborazioni a tutto campo di grande rilevanza (molti ricorderanno quella con John Mayer, aggiungiamo una menzione di merito al lavoro su “Alone With Everybody“, disco di esordio da solista di Richard Ashcroft), vogliamo chiudere questa piccola panoramica con un’altra feature tesa a dimostrare quanto ampio possa essere il campo d’azione di un bassista come Pino Palladino.
L’anno è il 2013: i Nine Inch Nails pubblicano il loro ottavo album in studio, intitolato Hesitation Marks. Al basso Trent Reznor si avvale del talento dell’artista gallese, che anche in questo caso “ci sta dentro” alla grande. Non si tratta forse del disco più heavy della band, nonostante ciò resta comunque assai suggestivo ascoltare come la spessissima combinazione di timing e gusto stilistico di Palladino si trovi assolutamente plausibile anche in un contesto alternativo come quello dei NIN.
Riassumere in conclusione le caratteristiche salienti di questo bassista risulta quindi comprensibilmente difficile. Benchè le sue radici musicali di riferimento si riconducano a una serie di filoni ben definiti, questi tuttavia non si incontrano così frequentemente e con standard così mediamente elevati come accade nello stile di Pino Palladino.
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