Un album intimista e dalle sonorità inconsuete per la terza prova da leader di uno dei batteristi jazz più in voga del momento.
Si intitola Flatbed Buggy il nuovo album solista del batterista e compositore statunitense Rudy Royston, prima scelta ritmica per artisti del calibro di Bill Frisell, JD Allen o Dave Douglas (trombettista quest’ultimo, e proprietario dell’etichetta discografica Greenleaf Music per la quale Royston ha pubblicato tutti e tre i suoi lavori solisti).
Copertina e titolo fanno subito capire che l’album ha ben poco da spartire con la classica iconografia jazzistica: niente interni di fumosi locali cittadini o grattacieli di grandi metropoli, ma un vecchio carretto di quelli trainati da un cavallo e usati nelle fattorie del sud per piccoli trasporti.
L’ambientazione bucolica trova in qualche modo conferma anche dall’inconsueto organico utilizzato da Royston, che ha messo insieme un quintetto quasi cameristico formato da Gary Versace (fisarmonica), John Ellis (clarinetto basso e sassofoni), Hank Roberts (violoncello) e Joe Martin (contrabbasso).
L’aspetto melodico prevale decisamente su quello ritmico nelle calde e malinconiche composizioni del batterista, cresciuto a Denver, ma memore dei giorni trascorsi in gioventù nelle campagne del Texas, dove era nato e di dove era originario anche suo padre.
Flatbed Buggy è quasi un concept album, che ruota attorno all’idea del ‘tempo’: quello dei giorni della spensieratezza, ma anche dell’inizio di tutte le cose, di un processo di crescita personale e musicale. Tutti i titoli hanno un qualche riferimento al concetto di tempo e di movimento e ogni tre o quattro brani ci sono dei ‘bozzetti’, brevissime composizioni che fungono da momenti di transizione, ‘salti nel tempo’ per connettere diversi periodi ed episodi.
La musica composta per l’occasione, complice anche l’inconsueta strumentazione utilizzata, è molto organizzata, in gran parte scritta.
Ritmicamente prevalgono le scansioni binarie, con la batteria del leader impegnata a ‘colorare’ i brani, più che a ‘spingerli’. Royston e compagni non si impegnano in una successione di assolo virtuosistici (appena uno e alquanto breve per il leader), quanto piuttosto mettono la loro maestria strumentale al servizio della corretta interpretazione di composizioni armonicamente tutt’altro che scontate.
Un album interessantissimo e di grande originalità.
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