Alla testa del Trio che porta il suo nome, completato da due ottimi musicisti portoghesi, il batterista statunitense ha da poco pubblicato l’album Live at Mobydick Records, un bell’esempio di jazz disinibito e aperto alle suggestioni stilistiche più disparate, che potremo ascoltare in autunno nel nostro paese.
Proprio da questo album, registrato dal vivo in uno studio di registrazione durante il lockdown dovuto alla recente Pandemia da Covid-19, partiamo per conoscere da più da vicino un batterista versatile e dal curriculum davvero importante.
Live at Mobydick Records è un album che potremmo definire ‘figlio della Pandemia’: che tipo di risposta hai riscontrato presentandolo dal vivo?
Una risposta fantastica: i critici hanno sottolineato non solo la qualità dell musica, ma anche il gran sound dell’intero album.
Sono davvero contento del lavoro fatto dall’ingegnere e responsabile del missaggio Budda Guedes e del mastering di Frederico Cristiano.
Non meno entusiasta la risposta del pubblico dal vivo: grazie all’energia, all’eccitazione, all’autenticità e alla qualità dei musicisti (NdA.: il chitarrista Vasco Agostinho e il bassista João Custódio, entrambi portoghesi), all’interazione all’interno del trio e al repertorio multistilistico, molta gente viene da me dopo un concerto per dirmi che non ha mai ascoltato una jazz band suonare così. E dopo averli ringraziati dico sempre che la musica che hanno appena ascoltato io la chiamo Jazz con carattere e che lo stile può definirsi Jazz e oltre.
Mi dà una grande soddisfazione sapere che il pubblico apprezza il nostro stile jazzistico.
Ascoltando Live at Mobydick Records mi pare di riscontrare dei suoni tipicamente jazzistici per ciò che riguarda i piatti, mentre l’accordatura dei tamburi – non troppo acuta – sembra più funzionale per suonare anche altri generi musicali, più elettrici, più orientati al rock: mi sbaglio?
No, non sbagli Alfredo. Mi piace un suono più profondo e più rotondo dei tamburi e sicuramente volevo che questo fosse un album di jazz, ma con un suono più Rock ‘n Roll.
Non potrei essere più contento di come suonano piatti e tamburi sul disco e credo che i batteristi debbano essere in grado di adattarsi a quanto risulta più giusto per la musica. Il suono del batterista dovrebbe amalgamarsi con quello degli altri strumenti.
Che setup hai utilizzato per il tuo ultimo album?
La batteria è una Yamaha Hybrid Maple con cassa da 20” x 16”, tom 12” x 8”, floor tom 14” x 13” e rullante 14” x 6”.
Quanto ai piatti, nell’ultimo album ho usato un 23” K Custom Special Dry Ride, un 22” K Constantinople Light Ride con 3 rivetti, un 19” Kerope Crash e hi hat 14” Kerope.
Usi sempre questo set up o cambi misure di piatti e tamburi a seconda del tipo di ingaggio?
Ho sempre cambiato le misure e i pesi dei miei piatti e tamburi a seconda della situazione musicale.
Nel corso degli anni ho utilizzato per lo più un classico set a quattro pezzi, ma ho avuto anche batterie con due casse, soprattutto prima che si rendessero disponibili dei doppi pedali affidabili. Avevo anche, e l’ho suonato, un set con due tom sulla cassa e due floor tom.
Come dicevo, sono un artista Yamaha, amo tutti i loro tamburi, ma soprattutto le casse. Per i piatti ho lo stesso approccio, e da artista Zildjian ho a disposizione un’ampia gamma di opzioni tra cui scegliere.
Spesso uso una coppia di hi hat da 13” serie A (hanno ben 35 anni), un 20” Constantinople Ride e un 19” K Custom Hybrid Crash. Ho anche altri ride preferiti: un 20” K Constantinople Hi Bell, un 22″ K Constantinople Light, un 22” Kerope e un 22” K Custom, un ottimo piatto per il rock, con una campana enorme.
In ogni caso, le combinazioni di piatti devono sempre risultare adatte alla musica e valorizzarla, oltre che mescolarsi bene alle misure di tamburi che ho deciso di suonare in quell’occasione precisa.
Che puoi dirci del tuo percorso di formazione musicale? C’è stata qualche personalità davvero importante per la tua crescita nell’ambiente?
Ho iniziato a prendere lezioni private di batteria a 10 anni con uno dei migliori batteristi/percussionisti di Broadway, Nat Foodman, che era stato scelto personalmente per eseguire quanto scritto sul libro con le parti di percussioni e batteria nella produzione originale del musical West Side Story di Leonard Bernstein.
Nat, che si era diplomato alla Julliard, aveva una grande lettura ed era uno straordinario e swingante musicista di jazz, che tra gli altri ha suonato anche per la star del Calypso Harry Belafonte. Lui mi ha insegnato a leggere, a swingare e a sviluppare la mia tecnica attraverso lo studio dei rudimenti. Da un lato fui sfortunato, perché morì per un tumore quando avevo 14 anni; dall’altro, invece, fui fortunato perché riuscì a dire a sua moglie prima di morire che avrei dovuto proseguire gli studi con il suo miglior studente, Tony Columbia.
E fu quello che feci: Tony è stato un altro dei migliori batteristi/percussionisti di Broadway e un grande insegnante, che ha continuato il lavoro iniziato da Nat. Insieme abbiamo lavorato tanto sulla coordinazione, sulla lettura dei rudimenti con il libro Modern Rudimental Swing Solos for the Advanced Drummer di Charles Wilcoxon, e anche sul cosiddetto show drumming e sulla lettura di partiture per big band, con grande attenzione nell’orchestrazione delle figure di preparazione, dei lanci e dei fill.
Dopo essermi laureato alla Johns Hopkins University, ho studiato al Peabody Conservatory e al Berklee College of Music di Boston: è stato lì che ho conosciuto Gary Chaffee e Alan Dawson. Dopo un anno ho lasciato il Berklee College per studiare privatamente con Alan, la mia principale influenza sia come batterista jazz ‘melodico’ sia come insegnante di successo.
Lo adoravo tanto come musicista quanto come insegnante: era organizzato e chiaro; a volte, durante la lezione, io suonavo il vibrafono e lui la batteria e in quei casi potevo capire pienamente in cosa consiste il feeling di un grande batterista e cosa si intende per ‘supporto musicale’. Ho studiato con Alan per due fantastici anni.
Hai in attivo collaborazioni e incisioni con autentici giganti sia del jazz sia del soul sia del pop internazionale, da Chuck Berry a Teo Macero, da Benny Golson a Mike Stern, da Tom Harrell a Bill Frisell e Bob Mintzer, passando per Paul Anka e Tom Jones. Ma sei soprattutto noto per la tua attività didattica, avendo a fine anni Settanta contribuito alla creazione del Drummers Collective. Puoi raccontarci qual era la filosofia didattica dietro a quel progetto?
Sono sempre stato contemporaneamente un performer attivo e un insegnante. In quanto membro fondatore del Drummers Collective, che aprì i battenti nell’autunno del 1977, ho contribuito a stabilire una direzione, lo standard dell’insegnamento e lo ‘spirito’ della scuola.
Il Collective comprendeva alcuni batteristi e percussionisti di New York di grande livello ed esperienza con la passione dell’insegnamento: al momento dell’inaugurazione era l’unica scuola al mondo dedicata esclusivamente all’insegnamento di batteria e percussioni; nel corso degli anni abbiamo insegnato a così tanti allievi sia statunitensi sia provenienti da ogni paese del mondo.
Nei 25 anni in cui ho fatto parte del corpo docente ho insegnato a principianti, professionisti già affermati e a chiunque altro nel mezzo… L’atmosfera che si respirava al Drummers Collective era creativa, non competitiva e di condivisione, non solo tra insegnanti e studenti, ma anche tra i primi, era un ambiente davvero fantastico in cui lavorare e imparare. I docenti volevano davvero condividere quanto sapevano fare con batteristi di qualsiasi livello purché ‘seri’.
Cosa ti ha spinto a trasferirti in Europa, e in particolare perché hai scelto il Portogallo come tua seconda casa?
Mi si è presentata un’occasione unica nell’autunno del 2003, quando fui invitato a coprire la cattedra di Drum Set Studies alla Escola Superior de Música e Artes do Espectáculo (ESMAE) in Oporto. Ho pensato che trasferendomi avrei potuto fare qualcosa di davvero speciale come insegnante, pur sapendo che non avrei suonato tanto quanto ero abituato a fare negli USA.
Ma la vita è fatta di scelte e mi era stata fatta un’offerta che non potevo rifiutare. Ero fiducioso di riuscire a cambiare il livello del drumming come anche il futuro del jazz in Portogallo.
Nel 2005 sono diventato responsabile del Dipartimento Jazz, cosa che mi ha consentito di avere un impatto ancora maggiore nel sistema formativo jazzistico portoghese.
Quanto all’aspetto ‘performativo’, fortunatamente ho avuto la possibilità di suonare un bel po’ di ottima musica, oltre ad aver registrato tre dischi a mio nome. Dopo più di 18 anni il Portogallo è ormai casa mia: la qualità e la tranquillità della vita, il cibo, il sole e il calore del pubblico sono favolosi. Il Portogallo è stato e continua a essere un fantastico paese dove vivere e lavorare.
Quali sono i cardini del tuo sistema di insegnamento?
Tenere insieme le cose di base: sviluppare una solida tecnica delle mani, imparare i rudimenti, ottenere una proficua coordinazione tra mani e piedi, imparare a tenere una varietà di groove solidi con musicalità e consistenza e apprendere un certo numero di generi e stili differenti.
Anche la lettura rappresenta una componente essenziale della mia didattica. Imparare a contare e a suddividere sono qualità decisive se si vuole diventare dei lettori brillanti. A questo scopo uso degli studi classici di tamburo, importanti per sviluppare le dinamiche e leggere un’ampia gamma di ritmi. I miei studenti devono anche lavorare sui soli basati sui rudimenti, che non sono solamente un gran bel modo per sviluppare la tecnica delle mani, ma anche una ricca miniera di materiale da utilizzare per imparare ad applicare sul set le figure derivate dai rudimenti stessi. La capacità di interpretare una partitura è un’altra abilità fondamentale che insegno, perché senza di essa non si può diventare un lettore completo.
Ho un metodo personale per insegnare il Jazz, il sistema di (Gary) Chaffee, lo sviluppo di uno stile basato sui tempi dispari, le frasi che attraversano diversi ritmi, l’aspetto solistico, lo sviluppo di un senso profondo del groove, il modo di studiare con profitto ed efficacia.
Ho pubblicato ben sette libri di batteria (Welcome To Odd Times; An Approach To Mental and Manual Dexterity For The Drum Set; The Book of Silence; The Encyclopedia of Double Bass Drumming (scritto a quattro mani con Bobby Rondinelli); Rudiments And Variations For Drummers; Understanding Rhythm – A Guide To Reading Music; Rhythmic Fundamentals; Compreender Ritmo), che ovviamente utilizzo con i miei studenti quando ritengo che possano agevolarne i progressi.
Considero ciascuno studente come un individuo a sè e sviluppo un programma che lo aiuti a raggiungere i suoi scopi. I miei studenti devono imparare ad ascoltare e a conoscere il tipo di suono che vogliono avere. La migliore abilità che io possa trasmettere a un allievo è quella di imparare a pensare per se stesso, far sì che sappia cosa vuole e possegga la disciplina per riuscirci.
C’è qualche possibilità di ascoltare a breve te e la tua musica in Italia?
In autunno dovrebbe iniziare una collaborazione tra la mia International Drum Academy e la Charleston Music School di Gabriele Morcavallo: abbiamo in programma di tenere dei concerti con il Michael Lauren Trio e dei seminari con lo stesso Gabriele Morcavallo e Donato Santorsa a Roma.
Vogliamo iniziare questa collaborazione didattica tra le due strutture per creare un canale tra Roma e Lisbona con una serie di eventi che mettano in contatto insegnanti e studenti di entrambe le strutture.
Avrete presto notizie a riguardo attraverso i miei canali social.
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