Ancora un lutto nella comunità batteristica, pesantemente colpita in questa prima metà di 2020. A 91 anni si è infatti spento uno degli ultimi alfieri della vecchia scuola jazzistica, Jimmy Cobb, artista che oltre 60 anni or sono si era assicurato lo status di ‘leggenda’ per la partecipazione a Kind of Blue, l’album di jazz inciso da Miles Davis che detiene ancora il primato di vendite per questo genere musicale.
Wilbur James “Jimmy” Cobb era nato a Washington il 20 gennaio del 1929; dopo aver suonato in alcuni gruppi jazz della sua area, aveva cominciato a farsi un nome a livello nazionale andando in tour con Earl Bostic nel 1951, quindi assumendo la direzione artistica, oltre al ruolo di batterista, nel gruppo della moglie, la cantante Dinah Washington (1951-55).
Trasferitosi a New York, aveva lavorato da free lance prima di entrare nel 1957 nella band di Cannonball Adderley, seguendo il suo leader l’anno successsivo alla corte di Miles Davis.
Con il trombettista Cobb ha avuto il non semplice ruolo di subentrare a un certo “Philly” Joe Jones, batterista virtuoso, allora all’apice della fama. Cobb aveva giocato le sue carte senza snaturarsi, facendo leva su un drumming meno esuberante ed estremamente concreto, assicurando fino al 1962 alle formazioni di Davis un accompagnamento solido quanto dinamico, dando vita ad alcune tra le più celebrate sezioni ritmiche della storia del jazz con il contrabbassista Paul Chambers e con i pianisti Red Garland prima e Wynton Kelly poi.
In particolare con Chambers e Kelly fece da sezione ritmica a numerosi solisti emergenti o già affermati, quali i sassofonisti John Coltrane e Art Pepper e il chitarrista Wes Montgomery.
Al servizio di Sarah Vaughan per ben nove anni negli anni ’70, è rimasto poi attivo come free lance molto apprezzato soprattutto dai pianisti (tra gli altri Kenny Drew, Mulgrew Miller e Tommy Flanagan), con frequenti tour in Europa e in Italia in particolare, dove anche in anni recenti aveva tenuto seminari e lezioni soprattuttto in occasione di alcuni festival estivi.
Quello che colpiva di Cobb era senz’altro il controllo assoluto delle dinamiche e il modo essenziale di accompagnare sul piatto ride, che spesso non declinava per esteso la tipica cellula ritmica dello swing (chiamata in tanti modi che ne ricostruiscono l’andamento ritmico: sha-ba-da; oppure walk-the-dog, oppure ding-a-ding) e si limitava ai quarti.
Il suo drumming, a detta di alcuni critici, non voleva sorprendere, non era assertivo quanto leggero e sinuoso, salvo ogni tanto esplodere con forza irresistibile. Pur essendo in grado di costruire degli ottimi assolo, non amava troppo prendersi la scena, preferendo esprimersi ‘sulla distanza corta’, ossia in scambi serratissimi con il solista di quattro o di otto battute, incentrati su un ottimo controllo del rullante.
Lo scorso febbraio la famiglia aveva lanciato una campagna di raccolta fondi per poter affrontare le continue spese mediche richieste da una salute sempre meno stabile, vista anche l’età avanzata; un appello rimasto però per lo più inascoltato.
Oltre che sul capolavoro di Davis del 1959 Cobb può essere ascoltato con il trombettista anche in Sketches of Spain e Someday My Prince Will Come.
Con Winton Kelly e Paul Chambers è consigliatissimo Kelly Blue del 1959; con Wes Montgomery Full House del 1962.
Testimonianza diretta della reputazione e del rispetto nei confronti di questo grande vecchio della batteria da parte di musicisti molt più giovani è l’album New York Time del 2006, con cui il fenomenale contrabbassista Christian McBride ha firmato il suo ritorno al jazz acustico.
Nei 18 dischi a suo nome (tre dei quali per etichette italiane) Cobb ha spesso offerto dei tributi alla musica suonata con i grandi leader con cui aveva collaborato.
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