La straordinaria chitarra di John McLaughlin con la sua band Shakti in una splendida replica del liutaio Mirko Borghino.
La chitarra è uno ‘strumento’. Quindi, come tale andrebbe considerata, un mezzo per raggiungere un risultato: produrre suoni. Anche se è impossibile negare che ci sono chitarre che trascendono questa definizione. Sia perché sono espressione della ricerca personale di un musicista che vuole espandere i limiti della propria creatività, quanto per la mano di un artigiano, che va oltre la semplice realizzazione del prodotto, per avvicinarsi al concetto di ‘opera d’arte’.
Probabilmente è sufficiente un’occhiata alla foto della copertina di questo numero per rendersi immediatamente conto che lo strumento di cui stiamo parlando rientra di diritto in questa categoria. Alla base di questo particolare progetto c’è essenzialmente una sfida: riuscire a replicare la chitarra che John McLaughlin ha utilizzato per il progetto Shakti.
Formazione nata nel 1974, in compagnia di Zakir Hussain alle tabla, ‘Vikku’ Vinavakram al ghatam, Ramnad Raghavan al mridangam e L. Shankar al violino, proponeva una singolare commistione tra jazz e musica indiana, si è sciolta nel 1978 lasciando ai posteri tre dischi molto intensi e fissando in maniera indelebile nell’iconografia della chitarra lo strumento che John utilizzava, caratterizzato da sette corde di risonanza posizionate trasversalmente sulla buca.
Come nelle migliori leggende, di questa chitarra si sa poco o nulla: ne esistono solo due esemplari, la prima ottenuta dalla modifica di una J-200 della Gibson, l’altra realizzata dal liutaio di fiducia del chitarrista inglese, Abraham Wechter, che per altro è sempre stato parecchio ‘riservato’ in merito.
A raccogliere la sfida è stato Mirko Borghino, che da diversi anni si fa apprezzare per l’elevato livello di realizzazione e di finiture delle sue archtop, sempre molto ricercate nella varie fiere di settore. E quello che ci è arrivato per le mani è il risultato di più di tre anni di studi e ricerche, con il rigore e la precisione che da sempre lo contraddistinguono.
Il punto di partenza è stato quindi la J-200, le misure dello strumento in prova fanno riferimento all’ammiraglia delle Gibson acustiche. Con l’utilizzo però di materiali pregiatissimi. La tavola, nel tradizionale montaggio a libro in due parti, è realizzata con un abete italiano della Val Pusteria a ‘graffio d’orso’ con venature meravigliose. Per fasce e fondo naturalmente acero, ma marezzato e quilted, spettacolare. Anche il manico è in acero marezzato, con tastiera in ebano scalloped, come il modello di riferimento.
La scala è leggermente ridotta rispetto allo standard 25,5″ per facilitare una certa sonorità ‘sitar’. Tutte le giunzioni del corpo sono ornate da un binding in abalone verde, che è stato utilizzato in maniera generosa per tutti gli intarsi presenti su buca, ponte, manico e paletta. Quest’ultima è lastronata in radica di tuia, in match cromatico con i ponti – perché, in effetti, ne ha tre – realizzati in palissandro brasiliano e monta sei meccaniche Schaller M6 Vintage con palette ‘step’.
E veniamo al punto focale della della chitarra: le sette corde di risonanza. Montate trasversalmente sulla buca, sono fissate a due ponticelli che non sono incollati direttamente alla tavola armonica. Sono molto sottili (circa 2,5 mm), per permettere alle sette corde di risonanza di passare al di sotto delle sei tastate, che ne avrebbero inibito la vibrazione e compromesso la stabilità. I due blocchetti, di circa 8 mm di spessore, sono incastonati – alla perfezione – nella tavola armonica e all’interno di zocchette di rinforzo, e fissati a un doppio sistema di catenature interno che si incrocia con quello tradizionale della cassa.
Le meccaniche, le nuove Stealth da ukulele della Gotoh, sono state modificate eliminando la palettina in modo da poter essere manovrate con una chiave a presa esagonale. La chitarra originale montava invece dei piroli da clavicembalo. Questa soluzione garantisce una miglior precisione e tenuta dell’accordatura, oltre a mantenere costante l’angolo di incidenza delle corde sull’osso indipendentemente dal numero di spire avvolte.
Non che sia una novità, ma il lavoro di Mirko è assolutamente impeccabile: non ci sono sbavature di sorta nella realizzazione dello strumento. Niente eccessi di colla, schegge… nulla. In particolare l’innesto dei ponticelli ‘supplementari’ è realizzato davvero in maniera perfetta.
Veniamo alla prova pratica, finalmente. La chitarra è perfettamente bilanciata, comoda da imbracciare, ben settata e assolutamente intonata. Se da un lato le tante peculiarità dello strumento possono provocare un attimo di smarrimento, dall’altro le dimensioni ‘familiari’ riportano tutto a una dimensione più accessibile. Anche la tastiera scalloped, che per un acustico ‘puro’ potrebbe essere una novità, ha il suo perché.
Sorge spontanea una domanda, naturalmente: le corde di risonanza come vanno accordate? McLaughlin dichiara di modificarle in funzione del raga del brano o delle sonorità di base delle tabla utilizzate. Impossibile approfondire in questa sede un discorso come questo. Borghino, in maniera molto più pragmatica, dopo un attento ascolto dei dischi del gruppo e dalla visione di tutto il materiale disponibile in rete, anzitutto ha affrontato il problema del gauge da montare, in funzione di tutte le accordature possibili. Al momento della prova monta un set .023-.068 accordato, dal cantino al basso, Mi Si La Sol Fa# Re Si.
Nel complesso la chitarra è ben equilibrata, con un’ottima definizione su tutta la gamma. Il tono è complesso, articolato, con la fondamentale in bella evidenza. L’influenza delle corde di risonanza, suonando da soli, si avverte poco. L’impressione è che, nell’utilizzo che ne faceva McLaughlin, entrassero in vibrazione con il tappeto ritmico/armonico del gruppo. Questo però non vieta di sperimentare, magari estendendo qualche accordatura aperta per aumentare l’effetto ‘simpatico’.
La Shakti di Mirko monta due K&K FanTaStick passivi sotto sella, per ovvi motivi di risonanza non è possibile usare rilevatori di altro genere. Sistema non molto diffuso, ma di buon livello, in grado di mandare all’amplificatore un segnale di tutto rispetto. La scelta di montare dei buoni sensori ‘undersaddle’ passivi nasce evidentemente anche dalla difficoltà di accesso alla buca, in caso di cambio della pila, e dall’esigenza di poter separare nettamente le due sorgenti sonore ottenendo un segnale stereo
Come accennato nella premessa, si tratta di uno strumento particolarissimo, unico, e con una precisa vocazione sonora ed espressiva. La sfida è stata sicuramente vinta, anzi… l’originale sembra davvero poca cosa in confronto a questa.
L’articolo di Mario Giovannini è stato pubblicato nel 2011 sul numero 4 della rivista Chitarra Acustica.
Maggiori informazioni sul lavoro di Mirko Borghino nel suo sito web ufficiale.
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