L’avevamo lasciato tre anni fa nel retropalco di Pistoia Blues alle prese con l’uscita del precedente episodio solista, The Big Bad Blues, e oggi ci incontriamo di nuovo secondo i canoni previsti dalla corrente situazione, a qualche migliaio di chilometri di distanza, “zoomati” in video, in vista dell’arrivo di Hardware il 4 giugno.
Siamo tutti musicisti, chi più chi meno, e tutti abbiamo sofferto del blocco di ogni movimento e attività, con la voglia di tornare al più presto su un palco, un palco qualsiasi.
La differenza, se ti chiami Billy F.Gibbons, è che per uno come lui le occasioni si creano facilmente, basta un pretesto.
In questo caso, ad attirarlo fuori di casa sono stati uno studio di registrazione nel mezzo del deserto, un paio di musicisti ben rodati nell’album precedente e – chiaramente – la voglia di suonare, di riprendere in mano la sua chitarra e creare qualcosa di nuovo ed emozionante.
Hardware è in ordine cronologico il terzo album solista del frontman dei ZZ Top, che nel frattempo continuano a lavorare a distanza per preparare il nuovo, molto atteso, lavoro da portare in tour appena sarà possibile raccogliere un pubblico degno di questo nome.
Parlare con Billy è sempre un evento, un’occasione per cogliere il lato più ironico anche in momenti relativamente pesanti. Il suo atteggiamento costantemente sopra le righe, le pose, gli abiti sgargianti e impossibili, sono elementi caratteristici di un personaggio che fin dall’inizio ha giocato molto sulla propria immagine.
Questo gioco diventa rischioso se dietro non c’è sostanza, ma nel suo caso e anche nella canzone più semplice e sbarazzina, c’è sempre quella mano smaliziata di un chitarrista che ha vissuto la storia del rock-blues da protagonista, scegliendo di viverla secondo le proprie regole.
È in questo modo che con i ZZ Top ha regalato a diverse generazioni di pubblico in 50 anni di attività momenti di grande divertimento, una storia musicale longeva come poche altre, una lezione di grinta ed essenzialità sulla chitarra.
Hardware è dunque una raccolta di canzoni sparate dritte sul bersaglio, molto poco prodotte (nel senso positivo), per l’ottanta per cento basate sul prevedibile hard driving rock che è la componente essenziale del DNA di questo signore.
Graffia la voce rauca, graffia la chitarra, l’album procede spedito fra pezzi veloci e shuffle rigonfi, un’intensa ballad e l’insinuante “Spanish Fly” in cui la voce di Gibbons assume toni quasi Waitsiani.
Da notare in “Stackin’ Bones” la presenza di due ospiti di rilievo come le due sorelle Larkin Poe, astri chitarristici in ascesa dalle notevoli doti.
Si distaccano dal mood generale la scoppiettante e allegra cover di “Hey Baby, Que Paso”, con il suo sgangherato testo Tex-Mex, e la misteriosa “Desert High” dedicata a Gram Parsons, mito del country-rock dei primi anni settanta.
Gioca sul tipico andamento ritmico della musica surf “West Coast Junkie”, ripresa anche nel video ambientato nel deserto.
Billy, a tre anni di distanza il team è rimasto lo stesso. Cosa è cambiato nel frattempo – a parte ciò che stiamo vivendo tutti nel mondo con la pandemia? Cosa caratterizza il nuovo album a livello di scrittura, registrazione?
Mi sono portato della salsa extra-piccante per queste registrazioni (ride)… è molto interessante, devo tornare un po’ indietro per spiegare come è iniziata. Ho ricevuto una telefonata dal nostro grande amico batterista Matt Sorum… tanti lo conoscono nei Guns’n’Roses, i Velvet Revolver… mi ha chiesto cosa combinavo e ho risposto. “Lo stesso di chiunque altro… nulla!!”
Mi ha detto che aveva appena scoperto uno studio di registrazione nel deserto di Joshua Tree, qui in California e io ho ribattuto “Ah, intendi il Rancho De La Luna, ho lavorato lì con i Queens of the Stone Age.” Ma non era quello. Mi disse che era un nuovo posto proprio di strada e propose di andarlo a vedere.
Allora ho scoperto che “proprio di strada” significava venti miglia all’interno del deserto! Niente segnale per i telefoni, fortunatamente si erano appena connessi alla rete. È così che è cominciato tutto. Siamo andati alla scoperta di questo interessante studio ed è venuto fuori che era molto bello.
È cambiato qualcosa nel modo di registrare le tue chitarre? Qualche nuovo strumento che è il caso di citare?
Avevamo pensato di iniziare con la solita, sperimentata strumentazione, ma poi nello studio ho trovato un vecchio riverbero Fender e il fonico ha detto di lasciarlo perdere perché era molto vecchio. “Funziona?”, ho chiesto, e lui non lo sapeva nemmeno. Allora l’ho acceso e, ovviamente… a dispetto di quanto disse una volta Jimi Hendrix, “non sentirete mai più della musica surf”… all’improvviso eravamo tutti lì a suonare di nuovo surf!! (ride)
Come nel video “West Coast Junkie”…
Sì! In quel suono c’è ancora una volta qualcosa di vecchio e qualcosa di nuovo. Questa è stata la sola eccezione, per il resto avevo con me ovviamente Pearly Gates e le altre mie chitarre…
Riascoltando La Futura, l’ultimo album realizzato con ZZ Top quasi dieci anni fa, rispetto a questo risalta il sound ancora più essenziale del trio, con una sola chitarra e basso. Questa band, invece, ha due chitarre… hai persino trovato un mancino! In video siete perfetti!
Sì, sì (mima i manici divergenti…) è un’entrata divertente. Si tratta di Mr. Austin Hanks. Mi piace ascoltarlo ma è molto difficile guardarlo, suona con la chitarra rovesciata e con una strana accordatura… (ride)
Nel video di “West Coast Junkie” non si può fare a meno di notare l’ammiccamento al look ZZ Top a base di occhiali da sole, belle ragazze… lo dobbiamo prendere come un buon segno per il futuro? Il preannunciato ZZ Top Celebration Tour è sempre nei piani?
Pensiamo proprio di sì e… sono venuto pronto per questa domanda (tira fuori gli occhiali da sole ridacchiando)!
Ottimo, lo aspettano in tanti.
Per dirla tutta, poiché non era possibile viaggiare – io ero in California, Dusty Hill e Frank Beard, l’uomo senza barba, in Texas – ho deciso di mandar loro qualche idea grezza perché cominciassero a lavorare su quello che ci piacerebbe diventasse un nuovo album di ZZ Top, presto in lavorazione.
E loro mi dicono: “Oh, abbiamo saputo che sei lì nel deserto, continua così”. E io: “Ma state lavorando?” Ero preoccupato che mi lasciassero a lavorare su questo mio album solista mentre loro passavano il tempo a guardare film o guidare macchine veloci! Stanno preparando una piattaforma ben solida sulla quale io poi mi possa muovere.
Quello che mi piace nel lavorare con Austin Hanks e Matt Sorum è che le due situazioni sono ben separate, in ambedue i casi c’è una base molto solida. Sono ben abituato a lavorare con Frank e Dusty e apprezzo realmente la differenza che c’è con Austin e Matt: è tutto abbastanza simile, niente di troppo lontano, ma il contrasto è piacevole.
D’altro canto ho visto che hai portato dentro un paio di interessanti ospiti nell’album. Negli ultimi anni tutti si sono innamorati delle due sorelle Larkin Poe, come evitarlo… e tu hai chiamato Megan e Rebecca per una delle canzoni…
Sì, ora tutti le conoscono, come meritano, sono deliziose cantanti e belle toste con i loro strumenti.
Quindi è la lap steel Rickenbacker di Megan quella che si sente nella canzone…
Ha suonato delle parti ritmiche nella base, ma viene veramente fuori quando passa al solo, e non è facile… la sua chitarra preferita è molto vecchia, una di quelle in bachelite…
“Desert High” sembra evocare letteralmente un trip da acido dietro un Joshua Tree o un saguaro. In che modo ti sei trovato a ripercorrere la storia di Gram Parsons (morto per overdose nel 1973 proprio nel deserto di Joshua Tree)?
Ho incontrato Gram Parsons praticamente per caso quando stava giusto iniziando a muoversi come solista. Era in Texas con la sua nuova band ma non ci hanno veramente presentati l’un l’altro. Avevo deciso di andare al concerto quella sera e di fronte c’era una bellissimo vecchio tour bus, un po’ come quello nelle foto di BB King di fine anni ’40, primi anni ’50… molto vecchio. Come quello di Bob Wills & the Texas Playboys… e qui sul fianco c’era la scritta “Look out! Here comes Gram Parsons!” (Attenti! Arriva Gram Parsons!”)
Ero lì che ammiravo questa meraviglia e ho iniziato a parlare con questo tizio. Siamo andati avanti per circa dieci minuti, senza parlare di musica o dello show, ma solo di questo vecchio bus.
Era Gram Parsons e a un certo punto ha detto: “Oh, mi sa che devo entrare a sistemare il palco… a proposito, mi chiamo Gram Parsons”.
C’era anche Emmylou Harris con lui in quel periodo?
Sì.
Una grande band…
Yeah, man… ma quando eravamo nel deserto, ovviamente… È un posto misterioso. Nei puoi parlare, ne puoi leggere o vedere foto, ma solo quando sei lì ti rendi conto di ciò che è veramente difficile rendere a parole.
Chiaramente c’è tanta sabbia, tante rocce, serpenti a sonagli, cactus, ma… sai, Gram Parsons all’epoca ci ha passato tanto tempo e abbiamo pensato che fosse importante portare l’attenzione su alcuni di questi elementi che rendono l’esperienza del deserto così insolita…
È molto efficace, un po’ come la colonna sonora di uno strano film western…
Già, è diverso ma dà effettivamente quel tipo di sensazione.
L’atmosfera generale dell’album ha un solido carattere rock ma un’altra eccezione è l’unica cover, “Hey Baby, Que Paso”…
Sì! Quella canzone mi ha sempre colpito. L’ha scritta Augie Myers, il tastierista del Sir Douglas Quintet. L’ho chiamato per chiedere se ci dava il permesso di registrarne una nostra versione e lui ha detto che gli sembrava una bella cosa. Poi, quando gli ho detto che avevamo qualche difficoltà con la seconda strofa perché io parlo solo qualche parola di spagnolo, si è messo a ridere…
“Non è vero spagnolo”, ha detto, “abbiamo inventato le parole!” Allora gli ho detto “Permetti allora che inventi le parole di quella strofa con il poco spagnolo che conosco?” E lui: “Certo! Vai tranquillo”.
Non è proprio spagnolo, credo che lo chiamino slang Tex-Mex del sud del Texas.
Beh, ti auguro di salire presto su un palco con le tue band…
Già, sono con te e tante altre band che sono in attesa di tornare al lavoro…
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