L’idea di parlare del concetto di “valore” mi è venuta proprio mentre discutevo del precedente scritto sul forum: ho notato, infatti, che in molte persone è radicata la convinzione che il valore di uno strumento debba per forza di cose essere proporzionale al suo costo materiale. Mi è capitato spesso di leggere commenti in cui si critica un tal prodotto perchè venduto ad un prezzo enorme rispetto al suo presunto valore, riferendo tale termine al “materiale con cui esso è realizzato”; magari sono addirittura gli stessi utenti che comprano uno strumento per la firma, la rivendibilità, l’endorser, cioé tutti fattori “astratti”, certamente non legati al costo materiale.
Prima di tutto però dobbiamo chiarire qualche definizione, non voglio fare l’accademico, semplicemente mi serve precisare il significato di alcuni termini per essere sicuro che si intenda la medesima cosa.
Il “prezzo” del prodotto indica banalmente la quantità di soldi che il venditore chiede e fin qui tutto prevedibile.
Il suo “costo” indica quanto il produttore ha dovuto investire nella realizzazione. Su questo aspetto ci sarebbe da scrivere un libro ma, per tagliar corto, vi basti considerarlo come la somma di tutti i costi sostenuti nella produzione, non è importante sapere quali, ne è dato di saperlo, anzi la maggior parte delle volte che si tenta di desumerli se ne ricavano solo grosse approssimazioni, molto spesso del tutto errate.
Per fare una ulteriore precisazione, utile per capire alcuni concetti che andrò a raccontarvi, possiamo suddividere il costo di un prodotto in due categorie, “variabile” e “fisso”: il primo è rappresentato dai costi che sono legati proporzionalmente alla sua produzione, dalle materie prime impiegate, all’energia consumata, alle ore di manodopera, etc…
Il costo fisso invece è costituito da tutte quelle spese che sono indipendenti dal numero di pezzi prodotti, ad esempio i macchinari, per cui non importa che siano realizzati mille pezzi o un milione, quel macchinario costa sempre quel tot.
C’è la progettazione, che tuttavia si fa una volta e basta (sto semplificando un po’, mi basta rendere chiaro il concetto), come più o meno tanti altri aspetti, ad esempio la pubblicità o il costo del personale (che è in parte proporzionale a quanti pezzi ma è anche non direttamente rapportabile al singolo prodotto, perché lo stesso dipendente può occuparsi di più linee produttive, l’amministrazione incide su tutti, etc… ).
I costi fissi di solito si “spalmano” secondo opportune percentuali sulla totalità dei pezzi prodotti, in questo modo succede che, se produci tanti pezzi avrai una riduzione dell’incidenza di costi fissi su singolo pezzo; viceversa, pochi pezzi costerebbero molto di più ed è il principio fondamentale su cui si basa la produzione industriale, che grazie all’ abbattimento notevole dei costi si può permettere di abbassare il prezzo finale o di investire cifre in innovazione che nessun artigiano si sarebbe mai potuto permettere da solo.
Ok, chiarito questo aspetto definiamo il “guadagno” come la differenza fra il prezzo incassato e i costi sostenuti per produrre qualcosa, concetto banale.
Molto meno scontato è definire il “valore”, che è qualcosa di più sottile, rappresenta quanti soldi un acquirente è disposto a scucirsi di tasca per l’acquisto di un bene; si confonde spesso col prezzo, ma sono due cose ben distinte, il valore rappresenta una sorta di potenziale, il prezzo è solo una mediazione fra chi compra e chi vende ed è variabile a seconda di fattori più o meno vari.
Esempio borderline: ho inventato un nuovo tipo di stufa ipertecnologica, consuma un quinto di una stufa tradizionale a parità di calorie erogate, è leggerissima e affidabile, mi costa tre volte una stufa convenzionale e decido di venderla ad un prezzo doppio rispetto alla media. Dopo alcuni mesi mi accorgo che non riesco a venderne, questo perché la maggior parte degli acquirenti non sente il bisogno di usarla al 100%, la legna costa pochissimo ed il risparmio che si ha con la mia stufa non è in equilibrio col prezzo che chiedo in più rispetto al prodotto tradizionale. Decido di abbassare il prezzo un po’, diciamo qualcosa di meno rispetto al costo di una stufa tradizionale con il relativo consumo di legna nell’arco di tre anni. Ecco che a un certo momento le vendite aumentano. Cosa è successo? Semplice, il prezzo della stufa ora si avvicina al “valore” che gli attribuisce mediamente il cliente.
Come avrete notato nella vendita, il costo sostenuto dal produttore non è stato influente, di fatto sta producendo qualcosa a condizioni svantaggiose (una stufa tradizionale la vende a poco meno ma gli costa pure la metà, il margine di guadagno è decisamente maggiore).
Naturalmente l’azienda non è per niente felice di abbassare il prezzo fino ad incontrare il valore visto dal cliente, per questo motivo l’approccio è un altro: si tenta di far aumentare il valore invece che far scendere il prezzo, ma… come?
Esistono una marea di cose che possono far leva per aumentare il valore di un bene: la prima, che abbiamo già citato, è la firma, il marchio, il “blasone”, che rappresenta già da solo tantissimi aspetti che possono motivare la predisposizione da parte del cliente a spendere.
Invece, un aspetto a mio vedere fondamentale dovrebbe essere l’utilità: un oggetto andrebbe pagato sempre per la sua utilità, anzi, per quella che ne deriva per l’acquirente; faccio questa distinzione perchè ognuno ha esigenze e priorità individuali e per questo l’utilità di ciascun prodotto può variare anche di parecchio. Tornando all’esempio precedente, la mia stufa super efficiente avrà la stessa utilità di un arbitro nel calcio balilla per chi vive ai tropici!
Ora, senza andare sul demenziale, nella vita di tutti i giorni l’utilità di molti prodotti può avere variazioni contenute, specie se prendiamo in esame individui con tratti comuni, e naturalmente diventa interessante valutare questo grado di variazione, non più i due estremi utile/inutile.
L’azienda può aumentare il valore quando riesce a produrre un oggetto utile a un bacino maggiore di utenti, il che non significa saper fare “tutto” ma saper produrre ciò che il cliente medio si aspetta. Spesso solo per capire questo si deve spendere un bel po’ in ricerche di mercato.
Un altro aspetto importante è la “qualità percepita”: da anni mi batto per spiegare alle persone, che siano artigiani o clienti, come razionalizzare tale aspetto, che adesso cercherò di esporre.
La qualità percepita rappresenta un indicatore che il singolo individuo (ma generalizzando diventa una media statistica di tanti individui che hanno percezioni differenti) assegna ad un prodotto in base alla sua capacità di apprezzarne le qualità… ok, giro di parole criptico, detto in parole povere, ognuno di noi messo davanti ad un prodotto, toccandolo, usandolo, guardandolo, si farà un’idea di quanto è “buono”, ognuno di noi lo farà seguendo criteri del tutto soggettivi, nel senso che considererà aspetti differenti in base ad esperienza, gusto, priorità ed esigenze proprie. Va da sé che la qualità rilevata da un chitarrista di esperienza ventennale su uno strumento di fascia medio alta sarà ben diversa da quella stabilita da un principiante, pur esaminando lo stesso strumento avremo impressioni e verdetto differenti.
Ora, dal punto di vista dell’azienda, nonostante millemila dollari spesi per avere il prodotto migliore sul mercato, la qualità percepita di questo prodotto sarà esattamente quella che, mediamente, il cliente sarà in grado di apprezzare, tutto il resto saranno solo costi superflui.
Per migliorare la qualità percepita serve l’informazione, serve “educare” i clienti a concentrarsi su determinati aspetti. Questo si ottiene con una pubblicità mirata (pensate a quanto ce l’hanno menata con le armoniche pari delle valvole per distinguerle dai transistor), con articoli che pongono enfasi sugli aspetti da valorizzare, con mille espedienti per far sì che il cliente cominci a considerare certe caratteristiche come fondamentali o molto importanti per sé stesso, caratteristiche che ovviamente il prodotto cita di possedere in più rispetto alla concorrenza.
Ci sarebbero tanti altri aspetti che costituiscono il valore di un prodotto, più o meno astratti, dalla rivendibilità, all’esclusività, ma non voglio dilungarmi ulteriormente.
In conclusione, da anni considero i prodotti sulla base del loro valore, personalmente faccio corrispondere tale valore all’utilità ed alla qualità (che implicitamente è quella percepita, ciò che non sono in grado di apprezzare, per me non esiste) quando compro qualcosa, ma non biasimo chi usa metri differenti. Ciò che secondo me proprio non dovrebbe influire su questa valutazione è il costo al produttore, proprio non mi interessa quanto sia costato a lui, il costo per me è un metro di valutazione della bravura dell’imprenditore, meno gli costa a parità di valore e più è stato bravo, il margine di profitto misura esattamente quanto è stato capace e quindi quanto sarà ricompensato.Ultimo esempio “demenziale”: un tizio fabbrica stuzzicadenti che costano 1000€ l’uno, cifra assolutamente folle ma giustificata dal fatto che ogni stuzzicadenti è ricavato partendo da un singolo tronco di mogano brasiliano lavorato a mano. A qualcuno interessa qualcosa del fatto che tale “genio” abbia costi abnormi dovuti al fatto che compra alberi interi di mogano brasiliano e passa un mese a scavarlo per fare un singolo stuzzicadenti? Qualcuno sarebbe disposto a pagare solo per questo i 1000€ per lo stuzzicadenti? Allora, perchè protestiamo quando scopriamo che, ad esempio, un amplificatore venduto a più di 2000$ costa si e no 200$ di componenti (magari ignorando che i costi sono anche altri)? Roberto “robyz” Sanna
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