Mike Bloomfield non è mai entrato prepotentemente nell’immaginario musicale della gente comune. Non è stato il chitarrista “maledetto” di una di quelle band che ancora oggi facilmente tappezzano di poster le camerette delle nuove generazioni.
E, anche sugli scaffali di tanti adulti, in mezzo ai dischi, non è facile trovarne traccia. O essere consci di avere un disco dove lui ha suonato.
Mike Bloomfield non è il chitarrista che nomini per strada con l’assoluta sicurezza che tutti ne siano a conoscenza, ma è stato uno dei chitarristi americani più importanti di tutti i tempi.
Classe 1943, cresce nella città patria del blues elettrico, Chicago, accanto ai migliori musicisti dell’epoca, assorbendone sotto pelle note e segreti.
Il primo grande passo lo compie nel 1965, quando grazie al suo amico Al Kooper viene chiamato come session man per la registrazione di uno degli album più importanti della storia: Highway 61 Revisited di Bob Dylan.
All’incirca nello stesso periodo dà vita insieme a Paul Butterfield alla Paul Butterfield Blues Band, una formazione di incredibili musicisti che negli anni ’60 sarà una delle più stimate band del panorama americano.
La band prende parte anche alle registrazioni di uno dei padri del blues, Muddy Waters, per il suo doppio LP Fathers and Sons.
Durante la Summer of Love del 1967, al Monterey Pop Festival (lo stesso dove Jimi Hendrix immolò alle fiamme la sua Stratocaster), Bloomfield debutta con la nuova formazione, gli Electric Flag, che l’anno successivo registrano un disco che non dovrebbe assolutamente mancare nella collezione di chiunque, A Long Time Comin’, un misto di blues, rock’n’roll, punte di psichedelia qua e là e tanto groove R’n’B.
Nello stesso anno, Mike, l’amico Al Kooper e Stephen Stills si ritrovano negli studi della Columbia Records di New York. Hanno piena libertà di improvvisare la musica che vogliono (bei tempi!) ed è così che viene inciso Supersession, disco numero 2 che dovete in ogni modo avere in casa.
Definire questo album è arduo. C’è tanto blues, ma anche tentativi di lasciarsi andare in territori jazzistici, belle canzoni pop-rock e lunghi momenti di improvvisazione libera.
La musica viene anche portata live al Fillmore East (incisioni inedite fino alla pubblicazione postuma del 2003) e qui c’è anche una curiosità: sul palco viene presentato un giovane musicista non molto conosciuto (ancora), Johnny Winter (la sua prestazione è da brividi).
Purtroppo i grandi successi sono a volte anche delle prigioni artistiche. Bloomfield non riesce a scrollarsi di dosso limmagine del chitarrista di Supersession e ne soffre molto.
Si lancia nel mondo acustico e una parentesi musicale lo porta anche a collaborare con musicisti italiani come l’armonicista Fabio Treves, ma al contempo è dipendente dalla droga e questo lo porta alla morte per overdose, nel 1981.
Un decesso misterioso, sono molte le voci che lo vedrebbero morto durante una festa privata e poi trasportato e abbandonato in auto in altro luogo.
Il suono della sua Gibson Les Paul è tra i riferimenti che si contano sulle dita di una mano per questo strumento. Altrettanto amore lo dimostra per la Fender Telecaster.
Il suo stile, mai scontato e sempre così fluido, è stato un esempio per i chitarristi a lui contemporanei (e successivi) molto più di quanto sembri.
Invitiamo chi finora non ne aveva mai sentito parlare ad approfondirne la storia musicale, che qui abbiamo percorso solo a grandi passi.
Aggiungi Commento