Ci eravamo lasciati su un’opera interrotta, quella creazione che Duke Ellington avrebbe voluto far valere nell’ambiente musicale come l’opera nera per antonomasia, lui che non riusciva più a sopportare il fatto che Gershwin, bianco come il latte, fosse riuscito a diventare il campione dell’opera di colore; Ellington fallì la sua prova di fronte alla solitudine del compositore d’opera, da sempre più legato ad una concezione compositiva strettamente relazionata alla collettività dell’orchestra, il Duca riutilizzò il materiale di “Boola” per dare vita a due lavori:”Ko-Ko” e “Black, Brown and Beige“.
“Ko-Ko” (1939) voleva richiamare le danze domenicali degli schiavi a New Orleans. La composizione è basata quasi interamente sulla scala eolia di Mib, non ci sono dubbi nell’affermare che Ellington con questa creazione anticipò di qualche anno il jazz modale di Miles Davis.Dopo il solo centrale di Ellington la composizione cresce fino ad una dissonanza di sei note che mette una settima di dominante sul Fab contro il Sib.
Ellington non usa la dissonanza in chiave modernista europea. “Questa è la vita dei neri“, disse qualche anno dopo il compositore. “Ascoltate quell’accordo! Questi siamo noi. La dissonanza è la nostra condizione in America, Siamo qualcosa di separato, e tuttavia parte integrante dell’insieme” (1).
Il 23 gennaio 1943 i sogni di Will Marion Cook divennero realtà. Dalla costola di “Boola” scaturì uno dei lavori più ambiziosi e significativi di Ellington. A renderlo tanto speciale fu soprattutto la sua prima rappresentazione, evento unico nella storia del jazz e, più ampiamente, della musica classica americana. Il 23 gennaio 1943 alla Carnegie Hall, uno dei luoghi del culto musicale classico bianco-centrico, debuttò “Black, Brown and Beige” di Duke Ellington. Era l’esperimento finale del compositore di Washington, “Black, Brown and Beige” rincorreva quel sogno di jazz sinfonico che Ellington aveva in mente da tempo, in cui le dimensioni della musica classica di tradizione europea ed il neonato e fremente mondo jazzistico si sarebbero finalmente uniti.
Duke Ellington calcava il palchetto della Carnegie Hall dando vita al sogno di un compositore di colore sul podio della musica bianca, quell’immagine tanto sognata da Will Marion Cook. La realtà però fu che da entrambe le parti, puristi jazz e conservatori di stampo eurocolto, l’unione inte-raziale del nuovo lavoro di Ellington non piacque per nulla. Il sogno di Cook svanì così nello stesso momento in cui Ellington si rimise in macchina a concerto finito, pronto per dirigersi verso un altro appuntamento con la sua orchestra.
Duke Ellington ha ridefinito i canoni della composizione universalmente intesa, trovando il punto d’equilibrio fra diverse sponde artistiche, come anche fra le opposte necessità del compositore e della nascente distribuzione musicale di massa. La grande forza di Ellington fu anche il suo limite più evidente. Fu uno degli iniziatori della composizione collettiva, in quel suo spirito impossibilitato al prolungato lavoro in solitaria, riuscì ad esprimere al meglio uno dei punto di stacco principali dell’originalità americana.
Duke Ellington si scavò un posto su misura nella storia della musica, ridefinendo la composizione come una pratica collettiva. Ecco spiegato il motivo per cui dirigere dal podio della Carnegie Hall, piuttosto che da quello di qualsiasi altro locale jazz, non aveva poi così tanto significato.
A Ellington venne chiesto il perché continuasse, dopo tanti anni, ad andare in tour con la sua orchestra (cosa che fece quasi per tutta la vita). La risposta che diede è forse il miglior modo di riassumere la sua personalità “Chiunque scriva musica ha bisogno di ascoltarla… C’è stato un tempo, anni fa, in cui la gente usciva dal conservatorio, dopo aver investito gran parte della propria vita, dieci anni e magari anche di più… nel padroneggiare tutte le tecniche dei maestri, e scriveva sinfonie, concerti, rapsodie, senza mai aver l’occasione di ascoltarle“.
Il nostro viaggio sul territorio americano è iniziato con il chiederci in quale modo i compositori del nuovo mondo avrebbero trovato la loro indipendenza dal peso della tradizione europea. Abbiamo visto come risposero Ives e Varese, capostipiti del filone ultramoderno, successivamente abbiamo scoperto invece come Joplin e Cook abbiano inaugurato la via del Jazz, traccia su cui Ellington ha apportato cambiamenti fondamentali e duraturi nel proseguire degli anni.
Il prossimo appuntamento segnerà il nostro incontro con l’uomo che riuscì là dove Ellington si fermò. Un uomo dalla pelle bianca ma con le mani di un nero: George Gershwin.
Note:
(1) Trad in Alex Ross, Il Duca in Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, p.250, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
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