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Duke Ellington, il Duca di Harlem

C’è un locale della City pieno di fumo e bicchieri poco promettenti, al bancone qualcuno discute animatamente perché il jazz si è venduto alla diffusione mainstream, Harlem inizia a dividersi, e dopo il 1935 non sarà praticamente mai più unito; il Rinascimento di Harlem si sta sfaldando in due correnti fra loro

C’è un locale della City pieno di fumo e bicchieri poco promettenti, al bancone qualcuno discute animatamente perché il jazz si è venduto alla diffusione mainstream, Harlem inizia a dividersi, e dopo il 1935 non sarà praticamente mai più unito; il Rinascimento di Harlem si sta sfaldando in due correnti fra loro opposte: William E. B. Du Bois sperava in una versione afroamericana dell’alta cultura, capace di fondersi con le idee mainstream americane ed europee; Langston Hughes rivendicava l’autenticità dell’hot jazz degli albori e si rifiutava di accettare “l’intellighenzia” dei neri settentrionalizzati. (1)

Duke Ellington, il Duca di Harlem

Nel ribollire della faida però c’era anche chi riusciva ad accettare entrambe le vie come valide, c’era chi voleva produrre alta cultura senza dover per forza sposare i dettami del “genio compositore” importato dalle sale europee.Un giorno uno studente tempestò il proprio maestro di domande riguardo a Bach, tanto che l’insegnante si trovò obbligato a rispondere. “Bach e io” disse addentando una braciola di maiale che aveva tenuto in tasca fino a quel momento “scriviamo entrambi pensando a particolari esecutori“.

Duke Ellington fu capace di navigare in buon equilibrio, senza mai naufragare trascinato dalle correnti che animavano la discussione dell’ambiente musicale americano. L’episodio della braciola è divenuto celebre per assurdità, ma rivela una verità molto più profonda: Ellington si stava distaccando dall’idea di compositore europeo, senza però rifiutarla completamente.

Quando per la prima volta abbiamo iniziato a parlare del XX Secolo sul continente americano, abbiamo citato le parole di un compositore europeo. Antonin Dvořák credeva infatti che la musica americana avrebbe trovato la massima espressione di sé nell’inserire il materiale afroamericano nelle forme europee. Dvořák predisse molte verità riguardo la musica americana, ma in realtà, in questo caso, accadde il contrario. Così nel blues e nel jazz i compositori afroamericani iniziarono a mescolare materiale proveniente dal vecchio continente.

L’America puntava a trovare la propria voce, c’era chi lo faceva rifiutando completamente il bagaglio d’esperienza europeo e chi invece non ne disdegnava l’eredità. Ad aiutare Duke Ellington a trovare la propria via ci pensò Will Marion Cook, quello che sognava la venuta del Messia: un Beethoven dalla pelle nera.

La prima registrazione di un brano originale firmato da Ellington risale al 1926, il brano è “East St. Louis Toddle-oo“, in cui Bubber Miley, grande maestro della tromba, ritrae il ritorno al campo di granturco di un vecchio che si trascina con stanchezza. “L’accompagnamento in tonalità minore, opera di Ellington, prende la forma di una sequenza ipnotica di accordi in posizioni melodicamente vicine, che girano in tondo come una folla di osservatori distaccati” (2).

Duke Ellington, il Duca di Harlem

L’improvvisazione solistica non era certo novità per la musica eurocolta, la grande novità dell’improvvisazione jazz fu infatti un’altra. Duke Ellington, Louis Armstrong o Fletcher Henderson ruppero una barriera che in Europa non riuscirà mai davvero a cadere.
Nel vecchio continente, il mondo della partitura e della scrittura musicale, quello dell’istruzione visuale, non morirà mai la distinzione tra composizione e improvvisazione. Fu il jazz degli albori a riuscire nell’impresa, trovando in questa deviazione una delle sue qualità più innovative.

La predisposizione alla diseducazione, propria della libertà di cui il continente americano ha sempre goduto nei confronti delle tradizioni europee, è alla base della concezione del jazz come vera alternativa americana.

I performer iniziarono così a parlarsi tramite elettrizzanti botta e risposta, dando vita a momenti in cui composizione ed improvvisazione si sovrapponevano fino a diventare una cosa sola. Ai dettami delle note scritte si sostituirono sguardi, gesti e percezioni fisico-sonoro-gestuali. Il compositore diveniva contemporaneamente direttore e solista, il feeling fra i membri della band assumeva connotati fondamentali per l’esecuzione, che, essendo in parte improvvisata, lasciava intravvedere la possibilità (che verrà sfruttata ampiamente di lì a trent’anni dalla musica sperimentale) che ogni esecuzione potesse essere diversa sera dopo sera.

Sono gli albori di un cambiamento epocale per la musica. Alla partitura si sta per sostituire la registrazione, capace di immortalare un’esecuzione e proiettarla nel futuro per riproduzioni illimitate. Non solo riproduzioni illimitate, ma diffusione utopicamente totale. Si prefigura l’idea che per ascoltare musica non serva più recarsi in una sala da concerto. Non è più necessario il privilegio economico di potersi permettere una serata fra il pubblico di un teatro o di un auditorium: per ascoltare musica può bastare una stazione radio ed un buon paio di orecchie.
Cavalcando i solchi della registrazione il jazz si diffuse a macchia d’olio, anzi, i 78 giri fecero così bene il proprio lavoro da avere presto delle richieste, una fra tante fu quella riguardante la durata dei brani: non doveva superare ciò che un lato del vinile concedeva.

Duke Ellington, il Duca di Harlem

Duke Ellington di tutta risposta si pose fin da subito la mèta di abbattere i limiti temporali imposti dal 78 giri, portando così il jazz nella dimensione dei lavori classici (solitamente richiedenti ben più di un solo disco per poter essere registrati in maniera completa). “Creole Rhapsody” richiese due lati di un disco, e senza troppi dubbi si può ammettere che Ellington, nel comporre, guardò all’altra rapsodia famosa, quella “In Blue” di Gershwin. I due si conoscevano, erano buoni amici e si stimavano l’un l’altro, a rovinare il loro apporto fu “Porgy and Bess“.
Ellington rifiutava recisamente l’idea che un compositore bianco potesse venir acclamato come il creatore di una ‘opera nera’” (3).

Di tutta risposta Ellington, che non era un tipo di sole parole, si mise al lavoro su “Boola“, ovvero la dimostrazione di come un’opera nera andasse realizzata. Duke Ellington era però compositore incline alla collaborazione, il lavoro su materiale operistico, in solitaria e per di più su ampio raggio, non faceva per lui.

“Boola” non andò mai oltre l’abbozzo, ma raramente lo sforzo di una mano così sapiente va del tutto sprecato, e infatti gli stralci dell’opera daranno vita a ben due lavori strumentali fra i più importanti per il compositore.Per il momento però fermiamo qui il nostro racconto, ma non temete, proseguiremo fra pochissimi giorni con la conclusione di questa nuova storia.

Note:
(1) Alex Ross, Il Duca, in Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, p.245, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.
(2) Alex Ross, Il Duca, in Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, p.247, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013
(3) Alex Ross, Il Duca, in Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, p.249, III edizione Tascabili Bompiani, Bergamo, 2013.

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