La protagonista della quarta puntata della nostra rubrica intitolata “Alla scoperta dell’Opera” è la celeberrima opera “La Bohème” di Giacomo Puccini.
Bastò il furtivo incontro delle mani di due innamorati perché l’operista di punta della scena italiana di fine ‘800 consolidasse le basi di un successo con pochi pari, regalando al mondo musicale immagini fra le più candide e dolcemente lugubri ch’esso possa ricordare. Non c’è spazio per grandi eroi o per le gesta di custodi di sentimenti universali.
Nella soffitta di Puccini si consuma la parabola di sei giovani, due nel particolare, che si lasciano traghettare dalle onde della vita, arroccati in castelli di finzioni ed assistendo ignari al triste scivolare della povera Mimì fra le braccia della tisi. Nella volontaria illusione d’aver aperto le porte per una vita sfamata dall’arte, Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline dipingono un quadro dalle tinte spesso travisate a causa della sordida grazia della musica su cui si reggono, pronta invece, quest’ultima, a svelare un baratro svuotato di quei sentimenti immortali che andavano sparendo con il morire del secolo XIX.
La storia si dispiega su sé stessa, iniziando e concludendosi in una fredda soffitta della Parigi di metà ‘800, riflettendo in parte i giorni milanesi in cui Puccini e Mascagni, quello della “Cavalleria Rusticana” (1890), condivisero una stanza senza troppi soldi in tasca. I due protagonisti, Rodolfo e Mimì, come anche i loro compagni in scena, sono squattrinati ed immersi in un mondo di quotidiana semplicità, tanto limpida da destare il dubbio d’essere fittizia.
In parte forse è così, il “reale” di Puccini è tale solo nell’introspezione di particolari casi umani, quasi patologici, piuttosto che nel dipingere un quadro che si avvicini alla sfera dei mali comuni. Simile tendenza è propria, in anni adiacenti, del filone verista in letteratura. Quando, con gran ritardo, il positivismo derivato dalla cultura francese e tedesca dava i primi segni italiani di riformismo sociale e politico, il verismo prendeva una strada diversa.
Furono proprio Verga e Capuana a ritrarsi dietro un velo pessimista e fatalista, in una muta accettazione delle ingiustizie e della povertà, rivolgendo la propria attenzione lontano dalla “questione sociale” e indirizzandola ad una psicologia tormentata, nuovo universo di piccole epifanie da porre sotto la lente d’ingrandimento.
È questo il mondo de “La Bohème”, microcosmo da scoprire in un infinito che si cela in eventi secondari e minuscole rivelazioni, nella vita dimessa e stentorea di una fioraia e di un poeta che tira a campare. C’è da dire però che nei lavori di Puccini la povertà, la sofferenza e l’oppressione, non sono più chiavi per evidenziare un messaggio pregno di linfa sociale, come avviene nel melodramma di Verdi, quanto piuttosto efficienti mezzi per far vibrare e tremare le corde del cuore.
La coscienza della crisi della società e dell’uomo contemporaneo è mediata, nascosta da miti solari, da tenerezze infantili, da vitalismi scattanti (1), relegando, nel caso particolare di Puccini, i valori civili e morali dell’Ottocento ad una rassegnata indifferenza. Possiamo chiamarlo realismo poetico? Si, facendo però molta attenzione alle generalizzazioni. Puccini non fu mai un intellettuale, capace d’impegno solamente in occasioni capaci d’attrarre il suo interesse, ma anche in quei casi, e la gestazione della Bohème è un buon esempio, la distrazione era sempre dietro l’angolo. Malgrado i dissapori intercorsi durante i lavori per la stesura dell’opera fra Puccini e i due librettisti, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, la supervisione di Ricordi riuscì a far approdare il difficile trio non solo alla conclusione della Bohème nel 1896, ma anche a “Tosca” (1900) e “Madama Butterfly” (1904).
L’opera si costruisce su quattro quadri, uniti da un filo che corre veloce, e già dai suoi primi attimi prende piede in una narrazione immediata che agisce sulla stretta aderenza tra azione e musica, canto e testo. Forse neppure Wagner è riuscito meglio di Puccini a integrare parola, suono e gesto in un’azione che si evolve. Nessun compositore comunica col pubblico in modo più diretto di Puccini. (2)
Il libretto di Giacosa e Illica si muove con la rapidità del dialogo “di strada”, in cui si aprono fulminei alcuni fra i momenti melodici più celebri dell’intero repertorio operistico. Laddove i versi non arrivano è la musica a stabilire il campo dell’azione psicologica, dietro la facile commozione si innalza la modernità di una partitura che fa sapiente uso degli insegnamenti del Verdi di “Aida” (1872) come del leitmotiv wagneriano, in una veste di sguardo al futuro che non rifiuta in alcun modo la tradizione, ma piuttosto trova nel suo rimaneggiamento una via verso un’inedita espressione di naturalezza.
Giacomo Puccini fu melodista di valore inestimabile, qualità che spesso gli costò anche qualche detrattore e qualche semplificazione di troppo. La tanto famosa “Che gelida manina” divenuta prototipo dell’aria sentimentale e brano prediletto dai tenori di tutto il mondo, gode di tale status per un apparente grado di semplicità.
Il tono in cui Rodolfo si rivolge a Mimì è discorsivo, e in questo tessuto s’innestano estesi frammenti lirici, basati sull’uso di semplici metafore del parlare quotidiano, accessibili a tutti. (3)
A guardare con occhio attento però, si scoprirà presto che la celebre aria presenta svariati spigoli esecutivi. In primis il ruolo per cui Puccini l’ha pensata, quello del tenore lirico (a metà fra il tenore di grazia e il tenore drammatico), in secondo luogo gli ardui fraseggi situati nei passaggi tra registro medio e registro acuto. Infine i numerosi acuti presenti in partitura, nove LAb3, due SIb3 come anche il famoso Do di petto previsto da Puccini, seppur con la presenza di una variante che autorizza il cantante a fermarsi sulla nota più bassa (LAb3), e scendere al RE3, invece che salire ai limiti della tessitura. (4)
Con mezzi tutt’altro che scontati Puccini disegna una trama musicale ai limiti della sopportabilità per tensione emotiva e pulsione drammatica. La tragedia di Mimì si consuma sotto i nostri occhi lasciando qua e là qualche indizio del triste finale, indizi che volontariamente decidiamo d’ignorare, illudendoci così di poter cambiare il destino della ragazza. Eppure Mimì muore, e noi, schiavi della trappola poetica di Puccini, ci ritroviamo a sperare che anche all’ultimo sbatter di palpebre Mimì stia nuovamente fingendo di dormire. La cruda realtà è in scena senza vie di scampo e così si conclude la breve storia di Bohème.
Non servono nemmeno due ore d’opera perché Rodolfo si ritrovi profondamente innamorato dell’ormai persa Mimì, e non è raro che, uscendo da teatro, ci si scopra ad unire una lacrima a quelle del giovane bohémien, anche noi affranti con lui per quella vita tanto semplicemente arrestata sul suo giovane percorso.
A cura di Francesco Sicheri e Antonio Rostagno
Note:
(1) Guido Salvetti, La nascita del Novecento, p.237, in Storia della Musica, EdT, Torino, 1991.
(2) Julian Budden, Puccini, p.494, Carocci Editore, 5° ristampa, Roma, 2012.
(3) Michele Girardi, La Bohème di Rodolfo, in La Bohème. Libretto di Sala, Teatro La Fenice di Venezia. Stagione 2012, pag.35.
(4) ivi pag.36
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