Gustav Mahler era uomo d’altra tempra rispetto a Strauss, sempre un po’ adombrato dal successo dell’amico, fa capolino in questa storia con la sua Sinfonia n. 6 in LA minore, eseguita per la prima volta nel maggio del 1906, undici giorni dopo il debutto austriaco della Salome. Il luogo deputato alla premiere della Sesta fu Essen, centro siderurgico nella Ruhr, nelle cui vicinanze si trovava la fabbrica di armamenti Krupp, i cui cannoni avevano seminato il panico tra le truppe francesi nella guerra del 1870-71.
Indubbiamente, visto il marziale inizio della composizione di Mahler, che tanto assomiglia all’approssimarsi d’una falange militare, non poteva essere scelto luogo migliore per il debutto dell’opera. Entrambe, la Salome di Strauss e la Sinfonia N°6, furono definite “sataniche” non a caso. Anche nella composizione di Mahler, come nell’opera di Strauss, si denota la volontà di voler saggiare quanto lontano era consentito spingersi senza perdere il favore popolare.
La Sinfonia N°6 di Mahler, rappresenta qualcosa di mai tentato a livello strutturale da un compositore prima d’allora. Il primo movimento si apre con dei LA staccati di violoncelli e contrabbassi, supportati da rullate militaresche di tamburo ed un possente tema in LA minore che incede sul muro rappresentato dall’utilizzo di ben otto corni. Subito dopo, i timpani rincarano la dose con un ritmo simile a quello che si può ancora assaporare nelle parate di Alpini austriaci: Sinistra! Sinistra! Sinistra-destra-sinistra!
L’opera vuole sconvolgere lo spettatore, il suo movimento procede lungo tutta l’opera in un continuo sviluppo dettato dal ritorno dei ritmi marziali che aprono il primo movimento, lo shock culmina nel fortissimo accordo in LA minore riservato per la fine della composizione, proprio quando il tutto sembrava sfumare nel silenzio.
La Sesta di Mahler non è melodramma ma musica strumentale, merita una menzione come altro chiaro esempio della tendenza di musicisti romantici a voler cercare nuove vie d’espressione. Mahler, come Strauss, Puccini e tanti altri partirono per gli Stati Uniti con l’alba del XX secolo, luogo dove nuova musica premeva per emergere, ma dove ancora mancava della musica classica autoctona.
“Vorbei!” (“È finita”), disse il grande Gustav Klimt alla partenza di Mahler nel 1907. Con l’addio del compositore si chiuse emblematicamente un ciclo, era il termine del romanticismo, il termine dell’età dell’oro.
I primi anni del 900 furono fondamentali anche per un altro motivo non trascurabile: le tecnologie di riproduzione e registrazione musicale compirono i loro primi grandi passi. Esattamente nel 1906 la Viktor Talking Machine presentò il suo fonografo Viktor, la diffusione di massa della musica iniziò a farsi sentire pesantemente influenzando anche la composizione, scopriremo nel corso di questa rubrica quante importantissime ripercussioni avrà tale mutamento sulle composizioni e sperimentazioni del XX secolo. Il Novecento s’intravede già nelle note degli ultimissimi romantici, e anche un italiano avrà qualche parola in merito.
Con la morte di Giuseppe Verdi nel 1901, l’opera italiana lasciò alla propria guida Mascagni (Cavalleria rusticana,1890), Leoncavallo (Pagliacci, 1892) e Puccini. È quest’ultimo ad interessare maggiormente la nostra storia, in particolare la sua Fanciulla del West, opera andata in scena per la prima volta nel 1910 al Metropolitan Opera di New York.
Al suo arrivo a New York, Puccini godeva già di grande successo in città, ed era determinato nel dare agli americani una nuova opera. La Fanciulla del West fu scritta con questo proposito e torna utile al nostro scopo perché nell’opera di un compositore come Puccini, indubbiamente appartenente alla tradizione, ritroviamo molti elementi di stacco dal passato.
Gli accordi esatonali, l’inserimento di ritmi americani di cake-walk e infine la protagonista. In un’epoca dove le protagoniste femminili finivano spesso malate o folli (come nella stessa Mimì de La Bohéme, capolavoro del compositore) Puccini ne La Fanciulla del West concede all’eroina femminile un carattere indipendente e impavido.
Puccini in diverse occasioni dimostrò quindi di aver ben assimilato ciò che la Salome di Strauss aveva suggerito, come anche di aver fatto propri molti degli insegnamenti tratti dallo studio di Debussy. Ecco che finalmente il nome del compositore francese fa capolino nella nostra storia, Claude Debussy, primo vero “protagonista novecentesco” di questo viaggio. Strauss, Mahler, Puccini, come altri furono nomi importanti nel passaggio tra i due secoli, ma fanno ancora parte di una generazione di mezzo a cavallo del mutamento.
Il compositore italiano continuerà a regalare opere fino al 1924, lasciando incompiuta la famosissima Turandot; Strauss, che vivrà fino al 1949, continuerà anche lui a comporre prolificamente, entrambi però senza mai staccarsi in maniera decisa dalla tradizione.
Nel corso delle prossime uscite si parlerà sempre meno di melodramma e sempre più di musica strumentale, perché questa sarà la tendenza del nuovo secolo XX. Saranno altri i nomi che daranno corpo a quella che è conosciuta come musica moderna, definizione tanto difficile quanto controversa, nomi che ci riserviamo però di svelare con cautela. Per ora possiamo posare la penna sul nome di Claude Debussy, assoluto protagonista del prossimo incontro.
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