Fin dall’inizio di questo nostro percorso abbiamo visto come il XX secolo, e i suoi albori in particolare, siano stati momenti di frattura e divisione con la concezione musicale data da tempo per consolidata. È un nuotare verso acque inedite e pericolose il leitmotiv dei protagonisti di questa nostra affascinante storia. Abbiamo assistito all’arrivo di figure che hanno minato in svariate modalità l’idea stessa della produzione, e conseguentemente della ricezione, musicale. Queste figure potremmo generalmente dividerle come afferenti all’area francese o all’area austro-germanica. Entrambi i filoni proseguirono contemporaneamente, non come eventi concatenati ma come unico ribollire europeo fatto di sbuffi e soffi dal diverso slancio.
Se a livello strettamente musicale si può rintracciare in alcune tappe fondamentali il crollo del dogma di fronte alla sfrontatezza del nuovo al galoppo, è necessario includere nello schema dei momenti cruciali un avvenimento storico che ha interessato l’intero globo e l’ambiente musicale, d’area francese o tedesca senza distinzioni. Il 28 giugno 1914 a Sarajevo moriva assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando e la sua morte apriva all’esplosione della Prima Guerra Mondiale.
Lasciataci da poco alle spalle la mostruosa morte di Lulu adagiata su dodici note in dis-accordo serve fare un passo indietro. È necessario abbandonare quel 1923 nel salotto di casa Schönberg, dove venne svelato ad amici e allievi l’eterno nuovo scandalo del metodo dodecafonico. La Sagra di Stravinsky è il riferimento cronologico che stiamo cercando, con essa si era creato il giusto presupposto per un nuovo tipo di arte popolare scaltramente barbarica (cit. Alex Ross, The Rest is Noise). Fissiamo bene nella mente il termine “popolare“, presto troverà ogni motivazione alla sua presa in causa.
Procediamo per gradi. All’inizio del secolo compositori francesi, spagnoli, italiani, russi e dell’Europa orientale tentarono in ogni modo di divincolarsi dalla pesante coltre di schiavitù tedesca. L’evoluzione musicale austro-germanica e il suo incedere, avevano preso il via di pari passo con la creazione e ascesa al potere dello stato-nazione tedesco, conquistando importanza e potere pari a quella acquisita dal futuro stato tedesco. Come abbiamo visto negli episodi precedenti Satie, Debussy, ma anche molti altri, mossero i propri sforzi lontani dalla pesante eredità dell’opera beethoveniana e wagneriana.
Il Primo Conflitto Mondiale trova enorme importanza in questa situazione, facendo breccia nell’ambiente musicale, purtroppo segnando anche il necrologio di pentagramma con l’ultimo sacrificio d’importanti compositori quali Albéric Magnard e George Butterworth. La vera esplosione e frattura avvenne però nelle menti di artisti ed uomini di cultura.
La Parigi degli anni venti, divenuta simbolo anti-germanico, guardò al passato pre-romantico come ad un nuovo bacino cui attingere come genere di folklore. Anche in musica la guerra ebbe presto i proprio schieramenti: la Germania era il nemico comune ed ogni mezzo era valido per eludere il martello teutonico. Per proseguire il nostro percorso abbiamo quindi riportato il calendario indietro di pochi anni rispetto alle sperimentazioni dodecafoniche da poco abbandonate.
Per una panoramica completa del primo ventennio del novecento bisogna spostarsi fuori dell’area austro-germanica, ma soprattutto serve tornare a quella ricerca portata avanti da Van Gogh nel tentativo di trarre nuovo vigore dalla realtà. Dobbiamo riprendere il discorso da quei Monet e Cezanne già nominati in questa sede, ricominciare dal naturalismo e da quei romanzi di Zola che narravano di prostitute.
Dopo una campata nell’emisfero tedesco con Schönberg, Webern e Berg, dobbiamo tornare a dove avevamo lasciato la Francia di Stravinskij, Satie e Ravel, soprattutto Ravel! In questa nostra storia dobbiamo tornare al compositore di origine basca per aprire il ventaglio delle figure di spicco a quelle zone dell’est europeo in cui si attuarono interessanti esperimenti di distaccamento dal germanico tramite un ritorno al “popolare”. Il filosofo Johann Gottfried von Herder (1744-1803) aveva per primo suggerito ai compositori di tornare ad abbeverarsi alla fonte dei Volkslieder, termine da lui stesso coniato per definire i canti popolari. Già nell’ottocento quindi molti compositori andarono ad attingere a raccolte di canzoni popolari ufficiali, mediate però, proprio a causa della pubblicazione ufficiale, dalla consolidata regolarità musicale (scale maggiori/minori, ritmi rigidi, divisione in battute regolari ecc.).
Fu Debussy per primo che nel 1889 scorse in occasione dell’Esposizione Universale le innumerevoli possibilità portate da esempi di musica “non occidentale”, capaci di eludere la notazione del vecchio continente. Oltre al famoso evento culturale parigino, fondamentale evento fu l’invenzione e diffusione del cilindro fonografico, tramite cui i compositori furono in grado di registrare musica per poi poterla studiare, senza doversi più affidare alla carta per fermare le canzoni in modo da poterle assimilare. Se vi state chiedendo come Ravel, su cui poche righe sopra abbiamo posto l’accento, rientri nel filo logico di questo percorso, è il momento giusto per affermare che, insieme a Janacék e Bartòk, egli rappresenta uno dei principali esempi del “realismo in musica” del XX secolo.
Janacék, Bartòk e Ravel, nati in villaggi e piccole cittadine, rimasero sempre ancorati al luogo extra-metropolitano d’origine, lasciando così una vivida fotografia in musica di una ricerca “popolare” come via di fuga dal dogmatico e dall’invadenza germanica. È proprio con il nome di Leos Janacék, il più anziano tra gli innovatori della musica della prima parte del XX secolo, che chiudiamo questo preambolo. Ci diamo appuntamento per il prossimo incontro a Hukvaldy, piccolo villaggio situato in Moravia e luogo natale di Janacék.
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