Dopo aver esplorato l’Europa centrale nei luoghi musicalmente più caldi d’inizio ‘900, la nostra storia si è spostata per un buon periodo verso est, passando per Ungheria, Repubblica Ceca e approdando infine in Russia. Dopo una lunga sosta in casa di Sostakovic e Prokof’ev è arrivato il momento di preparare i bagagli per intraprendere un lungo viaggio. La meta? Il nascente impero americano. Nel quarantennio seguente il 1865, conclusa la guerra civile americana con il trionfo degli Stati dell’Unione, gli Stati Uniti si protesero nella vorace scalata al vertice dell’industria mondiale che gli garantì presto il comando delle nazioni industrializzate.
La Prima Guerra Mondiale vide il colosso statunitense schierarsi al fianco degli alleati, ma con il fallimento della Società delle Nazioni, pensata per promuovere pace e sicurezza a livello internazionale, gli Stati Uniti si ritirarono in un isolazionismo forzato nei confronti dell’Europa. Parallelamente, durante la Guerra, la rivoluzione bolscevica aveva dato buon materiale perché si venisse a creare la romanzata esistenza del “pericolo rosso”, fattore che formò in maniera decisiva la mentalità americana degli anni a venire. La cultura americana, gli intellettuali, gli artisti e la popolazione, reagirono in modi diversi alle tante trasformazioni che il paese affrontò tra la fine dell’800 e gli anni Venti del ‘900. Di fronte all’arrembante società del capitale e del progresso si schierarono molte scuole di pensiero. Alcune d’esse perseguivano l’accettazione della nuova realtà americana, come il darwinismo sociale, secondo cui la storia e i suoi mutamenti erano da giustificarsi piuttosto che da indagarsi.
Ben altro interessava invece coloro che decisero d’evadere dalla nuova realtà statunitense. La scuola della Nuova Inghilterra rispose alla barbarie dei nuovi tempi con un ostentato isolazionismo intellettuale. Ci fu chi decise di abbandonare il suolo americano per tornare nella culla della cultura europea, è questo il caso di nomi quali Henry James, Gertrude Stein, Ezra Pound e Thomas Eliot. Altri ancora, come Mark Twain o Walt Whitman si scagliarono con pesanti condanne contro l’opportunismo sfrenato celato dietro il velo del progresso. L’inizio del 900 musicale americano è solitamente conosciuto ai più per quel periodo compreso tra la fine della Prima Guerra Mondiale e il crollo finanziario del ’29, quel lasso di tempo che fu definito da Francis Scott Fitzgerald, uno dei suoi più vivi interpreti e protagonisti, l’età del jazz.
Anni vibranti, frenetici ed immersi nell’ebrezza dell’alcool, divenuto vezzo anticonformista dopo l’entrata in vigore delle leggi proibizionistiche. Racconti e romanzi di Fitzgerald, Il grande Gatsby (1925) su tutti, offrono una buona immagine dell’eccitazione che caratterizzò il periodo. Il cinema, la radio, la nascita del fonografo ed infine il jazz. È la parola jazz quella che interessa maggiormente il nostro racconto, lo stesso Fitzgerald disse che «jazz ha significato prima sensualità, poi danza, infine musica. È associata ad uno stato di eccitazione nervosa, non dissimile a quello di grandi città alle retrovie del fronte». Lo scrittore usa il termine jazz per riferirsi a Whiteman e Gershwin, solo poi vi saranno associati anche i nomi di quel filone nero che si trasferì dai bordelli di Storyville fino a Chicago. La Creole Jazz Band di Joe King Oliver, Louis Armstrong in forza agli Hot Five e Hot Seven, ed infine Jelly Roll Morton, questo era l’apice della scena di Chicago, già dalla fine dell’Ottocento seconda metropoli per avanguardia dopo New York.
In definitiva la parola jazz, sotto la cui effige si è soliti catalogare certa produzione musicale, racchiude in sé un cambiamento che trova radici negli ultimi anni dell’800. Il mutamento sarà fondamentale nella concezione dei rapporti fra creazione e fruizione musicale, questo perché per la prima volta gli artisti popolari vennero riconosciuti non più come meri “intrattenitori” ma come artisti con la A maiuscola. Per la prima volta i compositori classici videro minacciato il posto d’onore sulla corsa verso il progresso musicale. Stavano emergendo altri innovatori e precursori. Erano americani. Spesso erano sprovvisti di una raffinata preparazione in conservatorio. E, sempre di più, erano di colore (1).
A farsi testimone e promotore di questo grande cambiamento fu un europeo, un boemo per l’esattezza, il suo nome era Antonin Dvořák, che nel 1892 era stato chiamato ad insegnare nel neonato National Conservatory di New York.
Dvořák trovò nella melodia nera la chiave del futuro musicale americano, esortò i compositori bianchi a farne uso e, molto più coraggiosamente, chiamò i neri a cimentarsi nella composizione. Dvořák si fece voce di una novità allarmante e pericolosa per la vecchia Europa. Fu lui ad affermare, molto provocatoriamente, che nello stesso Beethoven potevano rintracciarsi tracce di “melodia nera”. In un’epoca in cui Beethoven sedeva alla destra del Padre e nel Sud degli Stati Uniti il linciaggio dei neri era qualcosa di molto vicino ad uno sport, le affermazioni di Dvořák suonarono come un affronto di portata notevole.
Il compositore ceco aveva capito molto bene il potenziale della “musica nera”, ma non aveva compreso le modalità con cui avrebbe partecipato al futuro musicale americano. L’evoluzione della “grande e nobile scuola musicale americana” non sarebbe avvenuta sulla via della composizione classica, quanto piuttosto lungo le streets di ragtime, jazz, blues, swing ed in seguito rock’ n’ roll, funk, soul, R & B, hip-hop e via dicendo. Se i compositori di colore si scontrarono contro ogni genere di pregiudizio a causa della discriminazione razziale, i compositori bianchi americani dovevano fare i conti con il regno e lo strapotere della cultura musicale europea sulle platee d’oltreoceano. Presto però anche gli Stati Uniti trovarono le proprie voci, forti di una mancanza che venne presto trasformata nel più trascinante degli alleati: l’assenza di tradizione divenne presto libertà dalla tradizione. Spostata l’attenzione sul suolo americano, la composizione afroamericana rappresenta la prima grande novità per il ‘900 musicale, e per rintracciarne le origini è obbligatorio passare per il nome di Scott Joplin, re del ragtime, protagonista insieme a Will Marion Cook del nostro prossimo incontro.
Dopo aver esplorato l’Europa centrale nei luoghi musicalmente più caldi d’inizio ‘900, la nostra storia si è spostata per un buon periodo verso est, passando per Ungheria, Repubblica Ceca e approdando infine in Russia. Dopo una lunga sosta in casa di Sostakovic e Prokof’ev è arrivato il momento di preparare i bagagli per intraprendere un lungo viaggio. La meta? Il nascente impero americano. Nel quarantennio seguente il 1865, conclusa la guerra civile americana con il trionfo degli Stati dell’Unione, gli Stati Uniti si protesero nella vorace scalata al vertice dell’industria mondiale che gli garantì presto il comando delle nazioni industrializzate.
La Prima Guerra Mondiale vide il colosso statunitense schierarsi al fianco degli alleati, ma con il fallimento della Società delle Nazioni, pensata per promuovere pace e sicurezza a livello internazionale, gli Stati Uniti si ritirarono in un isolazionismo forzato nei confronti dell’Europa. Parallelamente, durante la Guerra, la rivoluzione bolscevica aveva dato buon materiale perché si venisse a creare la romanzata esistenza del “pericolo rosso”, fattore che formò in maniera decisiva la mentalità americana degli anni a venire. La cultura americana, gli intellettuali, gli artisti e la popolazione, reagirono in modi diversi alle tante trasformazioni che il paese affrontò tra la fine dell’800 e gli anni Venti del ‘900. Di fronte all’arrembante società del capitale e del progresso si schierarono molte scuole di pensiero. Alcune d’esse perseguivano l’accettazione della nuova realtà americana, come il darwinismo sociale, secondo cui la storia e i suoi mutamenti erano da giustificarsi piuttosto che da indagarsi.
Ben altro interessava invece coloro che decisero d’evadere dalla nuova realtà statunitense. La scuola della Nuova Inghilterra rispose alla barbarie dei nuovi tempi con un ostentato isolazionismo intellettuale. Ci fu chi decise di abbandonare il suolo americano per tornare nella culla della cultura europea, è questo il caso di nomi quali Henry James, Gertrude Stein, Ezra Pound e Thomas Eliot. Altri ancora, come Mark Twain o Walt Whitman si scagliarono con pesanti condanne contro l’opportunismo sfrenato celato dietro il velo del progresso. L’inizio del 900 musicale americano è solitamente conosciuto ai più per quel periodo compreso tra la fine della Prima Guerra Mondiale e il crollo finanziario del ’29, quel lasso di tempo che fu definito da Francis Scott Fitzgerald, uno dei suoi più vivi interpreti e protagonisti, l’età del jazz. Anni vibranti, frenetici ed immersi nell’ebrezza dell’alcool, divenuto vezzo anticonformista dopo l’entrata in vigore delle leggi proibizionistiche. Racconti e romanzi di Fitzgerald, Il grande Gatsby (1925) su tutti, offrono una buona immagine dell’eccitazione che caratterizzò il periodo. Il cinema, la radio, la nascita del fonografo ed infine il jazz. È la parola jazz quella che interessa maggiormente il nostro racconto, lo stesso Fitzgerald disse che «jazz ha significato prima sensualità, poi danza, infine musica. È associata ad uno stato di eccitazione nervosa, non dissimile a quello di grandi città alle retrovie del fronte». Lo scrittore usa il termine jazz per riferirsi a Whiteman e Gershwin, solo poi vi saranno associati anche i nomi di quel filone nero che si trasferì dai bordelli di Storyville fino a Chicago. La Creole Jazz Band di Joe King Oliver, Louis Armstrong in forza agli Hot Five e Hot Seven, ed infine Jelly Roll Morton, questo era l’apice della scena di Chicago, già dalla fine dell’Ottocento seconda metropoli per avanguardia dopo New York.
In definitiva la parola jazz, sotto la cui effige si è soliti catalogare certa produzione musicale, racchiude in sé un cambiamento che trova radici negli ultimi anni dell’800. Il mutamento sarà fondamentale nella concezione dei rapporti fra creazione e fruizione musicale, questo perché per la prima volta gli artisti popolari vennero riconosciuti non più come meri “intrattenitori” ma come artisti con la A maiuscola. Per la prima volta i compositori classici videro minacciato il posto d’onore sulla corsa verso il progresso musicale. Stavano emergendo altri innovatori e precursori. Erano americani. Spesso erano sprovvisti di una raffinata preparazione in conservatorio. E, sempre di più, erano di colore (1). A farsi testimone e promotore di questo grande cambiamento fu un europeo, un boemo per l’esattezza, il suo nome era Antonin Dvořák, che nel 1892 era stato chiamato ad insegnare nel neonato National Conservatory di New York. Dvořáktrovò nella melodia nera la chiave del futuro musicale americano, esortò i compositori bianchi a farne uso e, molto più coraggiosamente, chiamò i neri a cimentarsi nella composizione. Dvořák si fece voce di una novità allarmante e pericolosa per la vecchia Europa. Fu lui ad affermare, molto provocatoriamente, che nello stesso Beethoven potevano rintracciarsi tracce di “melodia nera”.
In un’epoca in cui Beethoven sedeva alla destra del Padre e nel Sud degli Stati Uniti il linciaggio dei neri era qualcosa di molto vicino ad uno sport, le affermazioni di Dvořák suonarono come un affronto di portata notevole. Il compositore ceco aveva capito molto bene il potenziale della “musica nera”, ma non aveva compreso le modalità con cui avrebbe partecipato al futuro musicale americano. L’evoluzione della “grande e nobile scuola musicale americana” non sarebbe avvenuta sulla via della composizione classica, quanto piuttosto lungo le streets di ragtime, jazz, blues, swing ed in seguito rock’ n’ roll, funk, soul, R & B, hip-hop e via dicendo. Se i compositori di colore si scontrarono contro ogni genere di pregiudizio a causa della discriminazione razziale, i compositori bianchi americani dovevano fare i conti con il regno e lo strapotere della cultura musicale europea sulle platee d’oltreoceano. Presto però anche gli Stati Uniti trovarono le proprie voci, forti di una mancanza che venne presto trasformata nel più trascinante degli alleati: l’assenza di tradizione divenne presto libertà dalla tradizione. Spostata l’attenzione sul suolo americano, la composizione afroamericana rappresenta la prima grande novità per il ‘900 musicale, e per rintracciarne le origini è obbligatorio passare per il nome di Scott Joplin, re del ragtime, protagonista insieme a Will Marion Cook del nostro prossimo incontro.
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