La forma musicale è il risultato dell’appuntamento tra l’avvenuto e l’imminente. In quanto che ciascuna nota non siede su sé stessa, ma irraggia il suo potenziale artistico alle note che sono per sopraggiungere, ed è nell’incontro tra i due tempi, passato e futuro, che il presente diventa significativo.
Nella forma è insito un processo di attesa del futuro, in essa si può riconoscere l’indole tesa verso un dopo, verso un poi che è immanente medesimamente in ogni suono che cerchi una forma.
La legge dei nessi che fonda, oltre la musica, scienze come la filosofia o la poesia è riprova di questo medesimo processo tipico di ciò che prende una forma, scienze per cui i risultati assumono solennità quando i nessi siano più forti e abbiano connesso tra loro frammenti esistenziali perduti nel tempo, dissociati, distanti.
Per cui si dilatano strade connettive tra le esperienze vitali con la profondità che ne consegue, la quale si fa pregnante soltanto se i nessi riempiono le distanze che in apparenza si presentano vacue, sconnesse. Il senso della forma dunque è trovare profondità.
Una serie di accordi è un potenziale viaggio artistico-narrativo, e all’improvvisatore è offerta l’occasione, tramite i nessi tra gli accordi, di svolgere una storia melodica significativa.
Al pari di altre scienze fondate su nessi, l’improvvisazione deve avvicinare melodicamente gli isolati accordi di modo che fra loro nasca l’armonia, come il ritrovamento della polarità tra due magneti che dopo essersi opposti, girati nel verso contrario si abbraccino. Un polo è rappresentato dalla nota di partenza, l’altro dalla nota di destinazione delle mie storie melodiche.
Nella tensione al dopo è la ragione della crescita insita nella musica, del suo obiettivo di svilupparsi cui essa aspira sempre più avidamente. E l’improvvisazione si edifica proprio su questa struttura orizzontale del tempo a venire.
Per ciascun esempio che si riporta, in cui è estratto un frammento armonico del chorus di Giant Steps, ogni azione ha la sua completa funzione melodica che si manifesta quando la nota di partenza consegue il suo nesso con la nota di destinazione , come il passaggio cromatico dal re# del Bmaj7 al re del D7, o come la ripetizione della medesima nota da cui si sviluppa la particella melodica.
Interrogando un improvvisatore egli dirà sempre che le sue note migliori non hanno ancora avuto luce. In questa tensione all’avvenire risiede molto di quel che si può in maniera incompleta definire la delusione d’artista, giacché le soluzioni con le quali si suole dire conclusa qualcosa non hanno mai smesso di tendere ad un altrove, cioè il discorso non giunge a quel suo stare che illusoriamente si vorrebbe.
Dopo un po’ si comincia a coabitare con questo senso di appetenza mai sopita, d’incompletezza del piacere, che si rivela, talora non ai diretti interessati, essere matrice fondamentale dello sviluppo ulteriore. Sicché risalta agli occhi che l’evoluzione personale non fa che passare per un territorio di asprezze e amaritudini, di rimproveri fra sé e sé, di rudi diverbi e zuffe colle proprie abilità.
In questo aspetto si dimostra più che altrove la congiunzione netta e pura della musica con l’evoluzione esistenziale, contrariamente a quel che si presenta in casi di altri settori, per i quali tutto forzatamente conosce la sua finitudine, la sua sistemazione e il suo sesto, per i quali la caccia alla verità giunge al suo vicolo cieco, la vita non cerca più la sua destinazione incerta, a tratti intravista in qualche piega del mondo continuo.
Da siffatta condizione si giunge anche a un’oscillazione dei concetti di perfezione e imperfezione che tanto impregnano le opinioni dell’arte, oscillazione sorta da quel medesimo provare l’indefinitezza e la delusione di cui sopra. Difatto, a voler andare analiticamente alla sorgente del senso di perfezione, essa è uno stato concluso e in nessun caso migliorabile, data la sua già massima espressione pura conseguita.
Ma ciò contrasta con quel moto del poi che non è unicamente umano, ma implicito in natura e nella sua evidentissima inclinazione al mutare.
La perfezione è un po’ come il concetto di nulla bergsoniano, un’idea, un concetto e non una realtà, essa, piuttosto ghiotta del velo paolino non ancora tolto, esiste dal di fuori, da chi la osserva passivo e con i propri limiti, ma dall’interno dell’esperienza essa non ha che disposizioni a diventare sempre altro, a respingere lo stagno della perfezione, dinamismo che non potrebbe essere se si definisse perfetta.
Da questo scorcio del solo di Coltrane si rende manifesta un’idea che si evolve, il cui senso esplode palese a conclusione d’idea avvenuta, cioè dalla congiunzione temporale di cui abbiamo detto già. La logica dello scorcio nasce dalla salita diatonica che le prime note di ogni accordo eseguono in vista del conseguimento d’idea ,espresso dalla totalità della striscia melodica.
L’idea è unitaria, ma cerca la propria attuazione nei cambi di accordo, quindi necessita di uno spazio temporale in un cui il completamento del tratto di narrazione consegua la sua chiara intenzione.
Secondo una prospettiva psicologica questo fenomeno potrebbe tradursi in questi termini: io penso di creare un qualcosa di ordinato e logico, tale ordine lo concepisco in qualcosa che cresce, in virtù di questa idea sfrutto gli accordi, li domino come base per lo sviluppo dell’idea, a questo punto l’accordo si piega alle mie intenzioni. Di primaria importanza è rilevare che tutto nasce da un’idea concettuale semplice e pura.
Secondo la strada che ci viene indicata dai detti assunti, la pratica deve puntare verso una cucitura dei tempi, le note devono muoversi per determinare forma mediante il nesso tra una nota suonata presentemente e una seconda che la seguirà. Ciò ha la sua traduzione pratica nell’antivisione o antiaudizione della foce verso cui tutto assumerà una forma piuttosto che un’altra.
Per ciò fare occorre quindi un esercizio che solleciti le forme del pensiero ad agire più in là che comunemente non sono avvezze a fare.
Una somiglianza a questo fenomeno dell’elasticizzazione del pensiero, della considerazione la si può constatare nelle metodologie solfeggistiche, per cui l’occhio fisico, lungi dal sostare, deve spingersi verso le misure più lontane ponendo nel serbatoio fedele della memoria quanto è già passato sotto il vaglio visivo.
La somiglianza è netta ma d’ordine differenziato, l’una relativa all’ordine fisico, l’altra all’ordine uditivo.
In un solfeggio ritmico, si prende già confidenza con quella spinta in avanti, e una pratica di questa non fa che renderla costituzionale al proprio rapporto con la musica.
Da evitare è che ogni misura venga considerata attimo dopo attimo, da cercare invece è un campo visivo molto più esteso. Così nel caso in esame, mi disporrò a considerare blocchi di 3/8 per volta e dal primo ottavo devo già aver recepito ciò che resta degli altri due, a quel punto sarò già al primo ottavo della seconda metà della misura, e così via.
Ribadisco che in questo campo solfeggistico quanto detto resta una funzione visiva, che siffatta impostazione deve presto trasferirsi nell’ordine del suono.
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