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Il Jazz di Donna Lee per trasformare la memoria in creatività

Il nostro vivere è il risultato della memoria. Tolte le memorie acquistate correndo l'avventura restano quelle ereditate dal gene, cioè l'universo impulsivo o anche la memoria fisica.

Ci si sarà sempre sentiti dire “guarda quanto rassomiglia a suo padre!“, come da noi in Sicilia in cui vengono declamati tratti arabi che ancora fioriscono a ornare occhi o bocca, in memoria di fasti e invasioni lontane adorate e odiate .

Quindi non si può sconfessare che il presente è memoria.
Un documentarista di storia umana come Vittorio De Seta per lasciar capire da che nasce il suo lavoro dice “i geometri che lavorano a un tunnel devono guardarsi indietro, cioè per tracciare una linea che avanza devono rivolgersi al lavoro già compiuto alle loro spalle“.

Il Jazz di Donna Lee per trasformare la memoria in creatività

 

Il regista Vittorio De Seta

Parto sempre dalla vita per arrivare alla musica e non è nuovo che ci si interroghi sulla legittimità pratica e pedagogica relativamente all’uso della memoria in musica. Secondo la lingua musicale che riguarda alla materia che trattiamo si è soliti dire “imparo il pezzo a memoria“, dalla quale proposizione si liberano almeno due possibilità dalla polarità opposta, ambedue pilotate dall’opinione che attribuiamo noi all’imparare o, per meglio dire, importare.

Da una parte l’azione risulta pedagogicamente frigida, inetta, mummificatoria, perché quel portarsi dentro qualcosa (im-portare) non trova alcuna morbida intimità con la nostra indole, l’importato resta autorevolmente sé stesso, non si concede a più profondi rapporti, anzi parla troppo di sé e contemporaneamente affoga gli sviluppi dell’essere, cioè le esportazioni del bisogno di significare (in un ambito più istituzionale ci si riserva l’uso del termine nozionismo, cioè quel sistema di concetti che galleggiano sopra la persona e ne ostruiscono i possibili fondali corallini).

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Dall’altra parte l’imparato si affaccia dinamicamente, si compenetra con l’identità, la può anche portare a smarrirsi in un buio, questo è pure vero, ma in massima parte questo smarrimento è soltanto un travestimento del dubbio, il risvolto di una linfa vitale, la longissima porta itineris.

Porsi dentro una realtà artistica significa assorbire ed essere assorbiti, secondo la memoria integrare e disintegrare per poi tornare a ricostruire. Quando questa realtà rappresenta la cima dell’ambizione personale, allora non è più possibile guardarla turisticamente, non frequentarne le casbe e i sotterranei, da guidati si diventa guide.

Bisogna che si definisca come la memoria operi favorendo la crescita e come invece s’areni restando inoperosa alla crescita.
La riproduzione fedele mnemonica di un brano o parte musicale è l’atto che sancisce la riuscita della memoria, ossia a un primo livello essa è già una conquista fatta, ma non bisogna scambiarla per la terminale e trionfante.

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‘La disintegrazione della Persistenza della Memoria’ di Salvador Dalì, rielaborazione del suo stesso dipinto in copertina ‘Persistenza della Memoria’

Questa è difatto la parte arenata e arenante della memoria, l’intervento del caso in questione è quello dell’esecutore, può possedere anche una maschera di compiacimento, di realizzazione, ma lo spirito creativo non subisce alcuno svezzamento, come chi gusti una vivanda sublime ma, quantunque sia abilissimo nel gustarla poi possa pure non essere ugualmente abile nel prepararla.

Per scendere davvero fino al fondo dell’efficacia del portarsi nella borsa mnemonica un guardaroba tanto abbondante, è preferibile svelare il senso di ciò che la memoria è in grado di riprodurre, armeggiare nelle cucine della consapevolezza.
Ossia ogni atto immagazzinato deve essere rivelato alla sua fonte, quindi mostrare cosa è che lo ha mosso, ogni componente affidata alla memoria non può essere sprovvista di questa sorgente manifesta, perché solo così diverrà una componente fondente (che si fonde), assumerà cioè una malleabilità infinita, in quanto la sua disposizione sarà aperta alla chimica della memoria, si allontanerà dai suoi lineamenti originari, e assieme ad altre componenti rilascerà variazioni nuove.
Allora la memoria non è solo il luogo del contenimento, ma anche il luogo della trasformazione.

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Photo by MyrabellaCC BY-SA 4.0

Gli studi a sfondo analitico vengono introdotti  in un crogiolo perenne che è quello della memoria. Quando si allarga lo spazio dei ricordi, essi non stanno necessariamente isolati e intonsi, non si dispongono con oculata riservatezza in disparte e impenetrabili, ma esiste una compagine di loro che si presta alla fusione con il resto che già ne era componente e con ciò che in seguito lo diverrà venendo immesso.

Per esempio, le conclusioni di un domanda nascono da una concatenazione e fusione di vari episodi mentali, da un covo di tasselli che tentano di raggiungere il proprio posto dopo che qualcosa è intervenuto a metterli sulla pista coerente, dalla miscela di congetture ne viene fuori un corpo definito e definitivo. Prima vagano in cerca di chiarimento, poi quando altri sono intervenuti e vi si sono mescolati, il tutto incontra la sua armoniosa struttura.

La fantasia sorge da questo risultato di coincidenze, di coincisività, è un amalgama di ingredienti della realtà misti a trasfigurazioni di questa. Se decido di creare fantasiosamente un personaggio, i suoi caratteri mi saliranno dal deposito dei mille caratteri di uomini incontrati nella mia vita, realmente o irrealmente conosciuti, e si cuciranno tra loro componenti disparate, anche svariatamente.
Le neuroscienze hanno dimostrato che la zona cerebrale che si attiva quando ricordiamo un avvenimento reale è anche quella da dove sorgono le fantasie.

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La realtà molte volte non la consideriamo tanto incantevole quanto la fantasia, non considerando che la fantasia si nutre di realtà, è un amalgama di realtà, come direbbe un grande umanista delle mie parti, ci sarebbe da screditare la grandezza di qualsiasi miracolo al pensare a tutto quello che avviene nel mondo naturale che noi stimiamo come ordinario e quotidiano.

Italo Calvino riteneva che tutti i libri letti in vita non formassero infine che un unico grande libro. In pittura Magritte dichiara di fronte a una tela che riporta una pipa “questa non è una pipa” ( ceci n’est pas une pipe), avendo la sua mente già ridotto ad altro il ricordo della pipa, ossia l’intervento della memoria avendo confuso quell’oggetto al suo essere.
Da ciò nasce l’interpretazione personale delle cose, ciascuno accoglie in un amalgama individuale una particola del mondo esterno e la riproduce vestita con abbigliamenti psicologici ed emozionali differenti.

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La pipa-non-pipa di Magritte

Le due memorie

Nella musica ho potuto riscontrare almeno due modalità della memoria pedagogica: l’uditiva e l’intellettiva. Alla prima appartengono quelli che usano l’orecchio come bussola per il tragitto, che partono dai suoni per poi arrivare alla sperimentazione, alla seconda quelli che partono dalla sperimentazione intellettiva per arrivare ai suoni.

Naturalmente è una classificazione troppo rigorosa, per assurdo, la frontiera si assottiglia molto, l’attitudine oscilla dall’una e dall’altra parte di continuo, la mescidanza non cessa mai di lavorare. Ma quel che intendo di dire qui è che ritorna molto profittevole conoscere queste due modalità della memoria, perché si possa con la loro collaborazione salire la china dello sviluppo.

  • La memoria uditiva avviene quando l’orecchio interroga soltanto l’altezza dei suoni e fugge una loro composizione più ragionata, ossia arriva al cuore del discorso, quindi s’impone all’ideologia di chi opera così che deve essere l’orecchio a imperare. 
  • La memoria intellettiva invece è qualcosa che parte dal giusto, dal coerente e tende al conseguimento del bello, quindi parte con l’indubbio, con l’esatto e tenta di salire dove l’orecchio incontra il suo appagamento.

Il lavoro più efficace che si può assolvere è una commisurazione armoniosa delle due modalità, affinché confluiscano verso la foce del bello. Estraiamo dal tema di “Donna Lee” una frase e tentiamo di comprenderla per mezzo delle due modalità della memoria.

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L’uditiva è immediata, l’intellettivo bisogno di un processo analitico più elaborato. Una cantante, per esempio, mutando tonalità sarà in grado di ricantarla (trovata la nota di inizio) senza eccessive difficoltà, ma anche chi non lo fosse ma qualche dimestichezza l’abbia con la musica saprebbe ricantare il medesimo ritaglio melodico in differenti tonalità. Fino alla riproduzione fedele non si denotano inconvenienti di sorta.

Ma se si dicesse di praticare un’elaborazione di quel ritaglio, probabilmente i dubbi sormonterebbero la fermezza di prima. Difatto elaborare qualcosa di dato significa averne inteso il nucleo di tipo intellettivo che l’ha prodotto, e in tal caso l’unico soccorso che ci si presta è quello della memoria intellettiva.

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Nella particola melodica in questione si vede bene che il discorso si evolve da un arpeggio maggiore ascendente costruito su una sovrastruttura seguito da un arpeggio discendente che altera il dominante aumentandolo. Ora scorgo la luce del faro venente da questa delucidazione intellettiva, e a essa mi appiglio per sviluppare le mie varianti.

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Dalle quali varianti si possono ancora intravedere la derivazione, l’ascendenza genetica e i tratti somatici, ma elementi presenti nella mia mente hanno dato il corso a una tramutazione.
Mi pare di poter concludere per questa volta con una finale affermazione, che la musica senza memoria non ci sarebbe, niente senza memoria può mai esistere, ciò che non esiste è qualcosa che non ha memoria.

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