Prolungo con quest’altro scritto la serie di trattati iniziata da qualche mese in cui si direbbero scomparsi i dati meramente pratici del fare musica.
Ma quel che può a prima vista sembrare uno sfogo teoretico, in verità non è. Mi pare, piuttosto, che si possa tendere a far concreti elementi che nella musica non possono del tutto cogliersi nella loro essenza, purezza, che, come meritoriamente diceva Schumann, facilmente sfuggono a chi non vi è abituato, causando così l’impossibile raggiungimento dei contenuti agli uditori.
Oltre a ciò, il sentimento che muove la stesura e la presa di parola attinge alla medesima fonte da cui la musica emerge, cioè dalla fattualità spirituale immanente dell’uomo, dal suo centro sentimentale.
In arte tra ombra e luce si verifica un contrasto o un confronto o, per dir meglio, un incontro? Talora gli orientamenti umani si smarriscono nei buchi neri del significato (o significante?) assunto dalle parole. Da qui, se mi lasciassi trascinare dagli adescamenti lusinghevoli del ragionamento sopra il discorso, si articolerebbe un oceano di considerazioni per antonomasia pirandelliane, direi quasi nettamente labirintiche, che mi porterebbero lontano dalla rotta meditata, quindi ne tacerò.
Però mi rendo evidentemente conto che ciò non può essere escluso dal tema, se vogliamo parlare dal concreto di un’esperienza. Contrasto e Confronto. Stare a obiettare vale per contrasto (la cui maniera consustanziale e conseguente di riuscita è nel trionfo di una delle parti), star fronte a fronte vale per confronto (dove, in verità non si ottiene un esito terminale, ma il confronto permane, impregiudicato e sospirato, o almeno descritto) .
Da quest’ultimo stare l’uno di fronte all’altro del confronto si attua il potere significativo e il messaggio essenziale di ciascuno. Il mondo è un fatto di reazioni. Si può affermare che l’essere individuale è escluso da ogni accezione di vita, tanto che nessun sentimento è puramente in sé, di per sé stesso appagato e conchiuso, sebbene esso è “per”: l’amore per una donna, l’amore per i figli, l’amore per i fiori.
Un “per” che pare dilatarsi e arricchirsi di profondità e più significato, non solamente identificandosi col senso direzionale di “verso”, ma guadagnare anche quello attuante e ben più pregnante e umanitario di “mediante, attraverso”. Con ciò affiora il senso che la sollevazione spirituale umana (che poi risponde in pieno alla vita umana, desertificata della quale essa non riesce quasi più nulla, disperde o annulla ogni significato) nasce da un incontro, da due predisposizioni potenziali che si fanno atto nel punto in cui si confrontano.
Ciascun frammento del vivere ha la sua personale ombra, verso cui confluiscono a capofitto quantità d’inesplicabili perché, cioè le nostre luci, i detti lumi. Anzi, a una più, e neppur mica tanto, attenta considerazione, si può dire che la vita consista di polarità attrattive. I generi, per ragione di esempio, costituiscono i poli, dai più fisici, che la diversificazione corrente tra polo organico maschile e polo femminile lampeggiantemente chiarifica, ai più spirituali, che l’attrazione polare della personalità psichica ha in nuce e che si manifestano nelle passioni estatiche.
Mi è parso molto utile ampliare il senso di genere, che per costume ordinario è attribuito a ciò che è organico, e spanderlo fino allo psichico, in cui si dimostra la più parte dell’attività della vita nell’uomo, che fu il tema principe delle considerazioni di De Chardin, il quale vide, studiando antropologicamente l’umano fisico, il cammino naturale indirizzarsi da una informazione della materia nella sua esteriore corporeità, fino a una profonda introflessione psichica, il cui tragitto è il cammino della vita attraverso l’uomo, con un non stravagante ritorno all’ “io non sono io, io sono parlato e io sono camminato” pirandelliani, che ingiustamente e ciecamente l’orgogliosa sintassi trova da obiettare.
L’ombra, questo termine quasi privo di lineamenti, può non esprimere alcuna immagine assimilabile dall’intimo coscienziale, è in grado sì di restare imprendibile all’idea, oppure proiettarsi di soprassalto verso una identificazione tanto scabra da venire in ripugnanza. Un tal esito Goya ce lo ha mostrato nel celebre Il sonno della Ragione Genera Mostri, cioè in un ammasso d’ombre che sovrastano e soverchiano il lume umano.
Ecco quindi apparirci l’ombra nella sua identità ferale, da cui volgere in fuga. Molta arte e riflessione umana contemporanea, la più introdotta nel cerchio della passione umana coeva, quella che vige all’interno del suo agone, anzi direi quasi tutta quella che ha un peso primario proprio per ragione di questa assimilazione tra uomo e umanità, tende a mostrare il “Sonno della Sensazione”. E ancora l’ombra ci si manifesta con i suoi caratteri spaventevoli.
Ragioniamo a partire dal fondamento dei nostri comportamenti culturali, ragioniamo a partire dal timore. Temere, cioè la parola che trasforma in sostanza comunicativa la disposizione d’animo, deriva da tama, cioè notte, tenebra, sicché l’oscuro reifica in favella un senso di paura. Questo oscuro o quest’ombra ha avuto la controparte nell’illuminazione sia razionale che spirituale, quindi ancora si ripresenta sub specie di pugna.
V’è da dire che molta di quell’illuminazione più che portare equilibrio ed equità all’esistenza ha prodotto un vischio di nuovi inganni, e ancora spicca qui un’eco pirandelliana. Ma quale genere di illuminazione implica questa conseguenza ingannevole? Tutto quanto ha inteso definire, circoscrivere e ultimare l’avventura umana conserva questo batterio infesto che prima o poi conduce alla cancrena del suo sistema ideologico angusto, e alla sua estinzione terminale.
Ora mi serve spostarmi un tanto verso le molteplici manifestazioni sentimentali dell’ombra, e prenderne una o due nel particolare, vale a dire la tristezza e la malinconia.
Per suffragare questa mia intenzione, prendo a sublime prestito l’incisione di Dürer. Luce e ombra traspaiono ambedue nel cammino, cioè sono ambedue parti costitutive dell’esperienza e necessarie all’esperienza, che nel caso di Dürer si relazionano al mondo alchemico, nascono a fondare un sentiero esistenziale, un punto di partenza, un obiettivo e il suo procedere di mezzo, il quale procedere è proprio dell’umano ed è composto sia dell’obietto che della causa che lo genera, cioè sia della luce che dell’ombra.
In questo senso, un grande rinnovatore del senso brutalmente sfregiato dalla storia del percorso alchemico è Jung, il quale ridonò ai caldi e tirati sospiri degli alchimisti il loro peso imponderabile dello spirito, cioè si dispose a significare il processo alchemico come un modo per passare dall’ombra alla luce del vivere, in ciò stava l’avventura della metamorfosi del piombo in oro, piombo e oro spirituali.
In una tale disposizione quindi viene incluso, senza ipocrite esclusioni, il facimento intero dell’esistenza, che illecitamente non toglie di mezzo l’avvertibile mistero dell’ombra, ma lo fa suo proprio, cioè lo annette al vivere, perché lo riconosce integrato a esso.
Nel medesimo senso possiamo rintracciare all’interno delle scritture, che fanno il complesso universo della religione, dei riferimenti inerenti. Nella Filotea si tratta di due tristezze, una maligna e un’altra benigna, l’una paventabile, l’altra riconoscibile. Nell’Ecclesiaste ricorre in sottofondo questo tema indicativo “meglio vale andare in una casa di duolo che andare in una casa di convito, poiché quello è il fine d’ogni uomo“.
La non esclusione dell’ombra si fa vitale. Fino a quel punto culminante in cui sale di sua spontanea e naturale voglia alle labbra il dire che l’ombra è un valore della vita. Ne è parte costitutiva e ne è necessaria. Così Leonardo: “chi fugge le ombre fugge la gloria dell’arte presso i nobili ingegni e l’acquista presso l’ignorante volgo il quale nulla più desidera che bellezza di colori. L’ombra è di maggior potenzia che il lume. Tu pittore per essere universale farai in un medesimo componimento che vi siano cose di grande oscurità e di gran dolcezza d’ombre“.
M’è molto premuto l’accentuare il punto in cui Leonardo dice dell’aspirazione universale, giacché pone sinteticamente quanto si è detto in questa argomentazione nostra e lo fa parere in tutta la sua necessarietà implicita e definisce in un modo autorevole lo spessore del termine Ombra.
Tutto questo risulta familiare e consustanziale a tutte le arti, le quali sono esposte alle medesime leggi, che sono appunto quelle della natura. Schumann, sotto il suo pseudonimo Florestano lo affermava indubitabilmente dicendo “l’estetica di un’arte è quella delle altre, soltanto il materiale è diverso“. Praticamente parlando, il lettore musicista può riscontrare in contenuti fattuali quel che si è riportato qui nell’articolo uscito qualche mese addietro intitolato al dominante.
Prima di chiudere vorrei terminare con una minutissima riflessione: l’ombra restaura il vigore della lucentezza.
Come Aristotele disse a chi venisse liberato alla luce della terra, avendo di fronte la pletora interminata del creato si scalfirebbe nell’intimo la suggestione meravigliata d’un imponderabile prodigio.
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