Avvertenza al lettore: questo piccolo trattato non riporta materie musicali pratiche, piuttosto materie concettuali, che l’autore stima siano il fondamento d’una successiva e, quindi poi, operativa attività umana sana. È ricondotto al lettore, che decide di andare oltre, il compito, se gli è grato e lo ritiene conveniente, d’incorporare i detti nelle varie pratiche vitali, tra cui la musica o qualsivoglia altro terreno di parentela e familiarità con gli atti del vivere.
Trovo meraviglioso il momento in cui i miei studenti giungono all’incontro col limite, perché finalmente si rischiara un punto fermo e definito della vita (d’ordinario l’espressione degli studenti che mi conferma questo momento è “sento che ripeto sempre le stesse cose, ho finite le idee“).
Cosa finisce? La conclusione è una speranza umana e un incubo della natura.
La conclusione è anche un incubo umano e una speranza della natura.
Si tenta, secondo il primo caso, di giungere da qualche parte, si predispongono fini, si circoscrivono limiti, che una volta finiti sono prettamente finiti; chiedono un rinnovamento, un rifornimento, un riassemblamento del secondo limite, finito il quale poi si va diretti ancora al terzo rinnovamento, così poi oltre. Ciò ci fa pure ritenere che l’uomo, a sua maniera, segue il decorso intrinseco della natura, ma in forma appunto limitata, cioè umana.
Quindi si dà l’uomo come essere limitato in quanto determinatore di limiti. Così dagli appunti di Leonardo: “noi conosciamo chiaramente che la vista è delle veloci operazioni che sia, e in un punto vede infinite forme, nondimeno non comprende se non una cosa per volta. Poniamo caso, tu lettore, guarderai in una occhiata tutta questa scritta e subito giudicherai questa essere piena di varie lettere, ma non conoscerai che lettere siano, né che voglian dire, onde ti bisogna fare verso per verso a volerne avere notizia“.
Lusinghevoli epiteti quali tuttologo, genio e alquanti di questa genia, non indicano se non un uomo posto a un limite altro, rispetto al limite in cui trovasi chi manifesta quel pensiero.
Egualmente vale questo per il pertinente la perfezione, essendo che ciò che appar perfetto per taluni non è del pari considerato da chi si trova molto più di là da quel limite; lo stesso artefice considerato perfetto, come potrebbe stimarsi Bach, poi tributa ad altro ancora la perfezione, stante ch’egli soleva tributare le sue opere alla grazia di Dio.
Finire è dunque una bizzarria propria dei pensieri più claustrofili dell’uomo, mentre parrebbe più coerente dirsi che si sta affrontando un finitissimo punto di quel grande eterno, che dunque ci si pone ad affrontare cosa alquanto imponente che nella limitatezza creaturale si deve ridurre a una forma avvertibile, a un tocco sensibile, a un limite appunto.
La qual cosa dice che a ciascun passaggio di limite si perviene ad affrontare un altro scampolo di eterno.
Taluni sono usi di stimare che per sola assenza di limiti l’uomo giunga all’illimitato, si formulano dottrine che affermano “sii un deserto, illimitato“, cosa che, benché n’abbia di contenuti secondabili, risiedente nella coscienza sbagliata con agevolezza intuitiva è plausibile sospettarla di presuntiva smania e d’altrettanto presuntiva predisposizione alla tirannide (l’uomo illimitato).
Bisogna che si ponga mente a un dualismo lottante all’interno della coscienza umana che nelle formula d’apertura si è di già delineato.
Il dualismo consta di fine e continuità, ambedue supportate da due costituenti la natura umana, in modo corrispettivo: la ragione e l’anima.
Ragionevolmente tutti cerchiamo una soluzione, ed è condizione che ci viene posta fin dalla fanciullezza, quando alle elementari ci ammanniscono che “Marco compra due chili di mele al mercato, mezzo chilo equivale a due mele, quante mele…“; dissolvere i problemi e trovare la soluzione, propriamente la fine. Spiritualmente la disposizione d’animo è che nulla mai termini, la promessa d’eterno che si fanno gli amanti. Ad ogni modo si instaurano due partiti di adempimento, che avrebbero a concorrere, cioè cooperare, ma che assai spesso invece s’allogano in angoli opposti del ring, e scambievolmente confliggono.
Come riesce tale disgiunzione? Quando i due partiti si pongono l’uno all’altro sospettosi ed avversi, allora l’uno si chiude nel limite e porta l’uomo alla fine, quindi ai pensieri sulla sua nullità, e diviene esso uomo preda d’una tetraggine infinita e concomitantemente debole alle idee morali sull’essere; l’altro si sente illimitato e non ragiona umanamente, creaturalmente, cui faccio rispondere le dottrine sulla scia del panteismo.
Come riesce invece la loro cooperazione? Dove l’uomo si pone ragionevolmente e ha i suoi appuntamenti con il limite, spiritualmente quelli vengono ricondotti al bisogno d’eterno, cioè al bisogno di seguire e passare il limite.
La ragione non trova ragione di andare avanti se non attraverso la passione. Chi mai vivrebbe senza aver speranza di un bene passionale, allucinatorio o verace che sia, che si trovi di la dà un limite? Sicché si può annettere a questo discorso il senso del nuovo, dapprima dando definizione di cosa sia il vecchio.
Il vecchio si può dire essere un effetto della consuetudine, cioè un nuovo diviene vecchio giacché reso solito e quindi noto e quindi saputo.
Vecchio, così inteso, nulla affatto è ciò che avanza d’età, in quanto ci possono essere vecchi (persone, libri, quadri, cinema, musica…) che ci narrano cose che ci risultano affatto ignote sentimentalmente, e quindi trovarle nuove, cioè intense e incalzanti i sentimenti. Vecchio è un nuovo abusato.
Quell’atto che si è detto, di giungere a far solito noto e saputo alcunché, è per l’appunto quel momento del limite, in cui il nuovo è la ricreazione di un limite altro, cioè di cosa che presto o tardi cadrà ancora preda al senso di vecchio. I fondamenti del nuovo in musica seguono i limiti del ripetersi in ciò che si espone, cioè nell’aver fatto vecchi quei contenuti che prima d’allora esaltavano, che si fanno vecchi espressivamente, poiché nulla mai può aver taccia di vecchio se ancora accende incendi sull’anima.
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