HomeStrumentiTeoriaLo studio metamorfico: perseverare, non arrendersi

Lo studio metamorfico: perseverare, non arrendersi

Premessa al lettore: per lo scritto corrente non ho riportato alcuno sviluppo pratico palese, senonché i retropensieri di base da cui si spera ogni azione prenda il suo moto, come la stazione d'inizio, il porto da cui salpare, o, se si vuole, il seme, dato che non si può dubitare che senza seme non ci sono piante.

Premessa al lettore: per lo scritto corrente non ho riportato alcuno sviluppo pratico palese, senonché i retropensieri di base da cui si spera ogni azione prenda il suo moto, come la stazione d’inizio, il porto da cui salpare, o, se si vuole, il seme, dato che non si può dubitare che senza seme non ci sono piante.

Non trattandosi di un argomento di facile portata, che si può comandare e dominare pienamente a proprio beneplacito, quello degli effetti, dei privilegi, delle risultanze dello studio resta sempre un argomento molto vago e indiscusso. Sono solito di farlo rientrare in una sintomatica malattia, che si mostra, nel suo lungo decorso, mediante piaghe e segni inequivocabili, piena di difficoltà: rabbia, demoralizzazione, rifiuto, abbandono.

Ma in verità questi patimenti sofferti mi sembra siano per lo più conseguenti a certe mancate, distratte e poco definite concezioni sopra l’atto dello studiare, il quale ben rientra in un fenomeno psichico di salita continua, che ha i suoi tratti di pianura e talora di pendenza favorevole, ma che non cessa mai di accennare a un ripiegamento verso l’alto, a una certa tortuosità, a ritornare misuratamente erto se non daccapo a impennarsi di scatto dopo tanto di strada che s’era già percorsa.

Così ci si può riferire allo studio come a un piacere della salita.

Evidentemente la salita è uno dei volti capitali dell’attività, dell’azione, dove, pur che non si giunga a conseguire quel fine che fu la scintilla primordiale all’impresa, dico che il piacere stesso è già nell’attività, che forse maggior piacere di questo non si possa raccogliere in nessuna parte della vita.
Il piacere dell’agire, del moto, è il piacere primo che si cela in ogni angolo dell’essere, a me basta pure sempre guardare chi da uno stato di inerzia si trasporti in uno di moto, come una corsa improvvisa o uno scatto, e spiarvi un bagliore di pudico sorriso sulle labbra per intravedere questo piacere. 

"Grande onda a Kanagawa" di Katsushlka Hokusai, la potenza e la delicatezza in una sola immagine

"Grande onda a Kanagawa" di Katsushlka Hokusai, la potenza e la delicatezza in una sola immagine

Devo anche dire che non ho in nessun caso posato un certo gusto della domanda sulle suture evidenti o nascoste tra la musica e la vita, perché si finisce nell’impensabile a voler ridurre ciò che nasce spinto da bisogni naturali ad atto astratto, senza nessi visibili o intuibili, con regole interiori distanti da regole innate, spogliate della loro motivazione adamitica, si arriverebbe a grandi abbuffate come in quel film di Ferreri, l’impulso naturale del mangiare prende le distanze dal suo senso e si distorce a tal punto da divenire mortifero.

Con ciò sia anche detto di passata che tutto resta possibile ma quel che è possibile non è forzatamente giusto e naturale, se ciò non fosse non so che senso avrebbe la giustizia umana. Umberto Galimberti, per esempio, si definisce greco nel senso del limite, ossia riconosce che ci sono dei limiti dentro i quali l’umano agisce umanamente e affine alle sue condizioni morali interiori, scavalcate le quali si troverebbe a essere altro e ad aver violato la sua naturalità.

La musica che intenda scendere nel profondo della sua significazione e che diventi una totale espressione dell’individuo deve subire, per così dire, lo scotto o per meglio dire privilegio, di un’azione comprensiva, di un atto raccoglitore.
Ma cos’è la comprensione? L’epoca scientifica oggidì intensissima che talora attraversiamo e che anche in certi casi violentemente ci attraversa, pone come idolo supremo la comprensione.
Essa però mi pare essere più profittevole se di natura associativa, ossia offra l’occasione di unirsi totalmente alle cose del mondo (non secondo una visione panteistica, per carità, ma secondo la comprensione dello stato dell’uomo nel ventre dell’essere) secondo l’accezione di com-prendere, cioè di prendere insieme che può voler anche annettere nel complesso anche l’essere presi, quindi l’intravedere come si è noi stessi presi nel tutto.

Il piacere della scoperta non deve essere un piacere di tipo separatorio, ma unificatorio, non sono io che scopro ma è la scoperta a scoprirmi.

Per esempio, qualche sera addietro un dotto amico, trovandoci dinnanzi a una veduta panoramica coinvolti ad ammirare il formicolio di luci di una distante Palermo, riferiva di sentire forte la suggestione che gli nasceva dalla considerazione che lui poteva mirare di fuori quella compattezza indivisibile e che dentro quel punto di vive luci fiammeggianti si manifestassero milioni di vite, l’uguale suggestione che si produce quando dall’oblò dell’aereo ci si sporge a guardare la città che si ingrossa atterrando.

In agguato dietro queste parole stava l’idea che egli fosse estraneo a quel tutto che si poneva a osservare.

Questa idea di estraneità è assolutamente impossibile, non c’è niente che non sia avvolto dal tutto, che non sia una parte del tutto e niente che sia tutto. Ora dico che avvicinarsi allo studio della musica deve esser fatto proprio secondo questa inclinazione, come atto comprensivo della propria natura nel tutto, la musica quindi diventare uno strumento adatto a manifestare questa comprensione, senza porre siepi di sorta.

Un maestro universale di fotografia della mia terra dichiara sempre “non sono io che faccio la fotografia, è il mondo che viene a posarsi sulla mia lente, io schiaccio soltanto un bottoncino, è il mondo che è importante, non io“, per dire che non accade nessuna dissociazione trionfante dell’uomo dal resto, ma avviene una lettura di un mondo già esistente di per sé, di cui l’uomo è latore di una particola del messaggio, un potenziale profeta se se ne riconosce in quanto parte del tutto, un imitatore sagace.
Resta quindi a definirsi in che modo avvenga questa lettura profetica del mondo per mezzo  della musica, cioè si tratta di capire durante lo studio della musica che cosa sia a conferire e far suscitare da essa significato universale.

"Stelle" di Maurits Cornelis Escher, con il suo uso di Solidi Platonici e del “De divina proportione” di Fra Luca Pacioli

"Stelle" di Maurits Cornelis Escher, con il suo uso di Solidi Platonici e del “De divina proportione” di Fra Luca Pacioli

Un significato del mondo, per esempio, è l’azione, il moto perpetuo, così negli articoli precedenti si è dato uno scorcio breve alle attività del dominante, che genera moto. Un significato del mondo è l’ordine della natura, la legge implicita di ogni creatura che lo compone, indifferibile, inalienabile, così abbiamo veduto che quelle musiche durature, quei linguaggi immarcescibili come il bebop hanno tutti una sagoma e un’indole ben definite.

Un significato del mondo è la dialettica assonanza-dissonanza, in cui si ammontano le componenti antitetiche dell’esistenza, da cui se ne desume la essenzialità della presenza di ambedue.

Un significato del mondo è l’attesa e la speranza che l’arte pone in questo mentre della vita, agendo talora profeticamente verso una risoluzione morbida o verso una scabra, in cui pare potersi riflettere il percepito come mancante del suo ordine completo e quindi irrisolto, la speranza verso qualcosa che manca.

Per quanto è stato detto si arriva a un punto specifico del senso più intenso dello studio: essere compresi nell’atto di comprendere. La musica quindi è prodigiosa quando si presenta come mezzo mediante cui affluisce un bisogno naturale che abbiamo detto essere associativo, pertanto muniti di tale attitudine va perseguito lo studio.

Il processo è psicologico: nell’imparare si fa un’azione esterna di cui si è alla prima estranei e se ne cava nient’altro che impaccio. Man mano che il limite tecnico si assottiglia, e ciò accade attraverso una presa di incoscienza, ossia ciò che è approfondito coscientemente diviene parte integrata e assimilata e quindi interiorizzata (l’esterno si muta in interno) e il mezzo si fa l’alveo di espressioni interiori, così il mezzo sparisce e resta soltanto il flusso.
Limare questo alveo significa rendere il corso della creatività sempre più lineare, tagliare i rovi che s’interpongono al tragitto.

Cosa è che fa parte di questa modellamento dell’arte? Oltre alla tecnica, la quale in molti casi viene ingiustamente pensata come l’intera musica, fanno parte anche studi strutturali delle armonie, l’apprendimento di un linguaggio, che non è mai conclusivo, ma è appunto un alveo irrigato ma vacuo, le acque del fiume le mettiamo noi.

Proverbialmente abbiamo ricevuto per tradizione “impara l’arte e mettila da parte“, che molto brillantemente e sagacemente esprime questo fenomeno dell’interiorizzazione, del passaggio da un atto riflesso a un atto irriflesso. Tutto quindi sta nel portare all’irriflesso quanto è di più salutifero all’arte di cui ci occupiamo, perché l’alveo sia fortificato e pronto ad assumersi il corso impetuoso dell’interiorità.

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